Via D’Amelio dopo 27 anni – L’ombra di Contrada al Viminale e le possibili copie scomparse dell’agenda rossa

di Enza Galluccio

Su questo palco ogni anno abbiamo visto salire i famigliari delle vittime dellestragi e di mafia.
Vincenzo Agostino, Angela Manca, Graziella Accetta e Ninni Domino, sono solo alcuni dei nomi di coloro che, in questa giornata sempre piena di sole, trovano forza e coraggio per dire qualcosa alle tante persone che spesso attraversano l’Italia per arrivare in via D’Amelio ogni 19 luglio.
A Salvatore Borsellino non piace che si parli di commemorazione, per lui è un altro giorno di lotta perché giustizia sia fatta. La verità c’è già, basta farla emergere, ha detto tante volte e, spesso, l’ha anche gridato proprio dal palco di questa via in cui 27 anni fa morivano suo fratello Paolo e i cinque agenti di scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, e Claudio Traina. Alla strage sopravviveva solamente un agente, Antonino Vullo, presente anche quest’anno a quest’evento.
Dopo il minuto di silenzio, Salvatore ha letto la poesia “Giudice Paolo” diMarilena Monti e ha
gridato ancora “Giustizia!” con la voce straziata, qualcuno ha pianto.
Tra le persone sedute in prima fila ci sono il senatore Piero Grasso, il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, il Presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra e si intravede il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, di passaggio.
Nel corso del dibattito “Verità di Stato, verità di tutti?” moderato da Giuseppe Lo Bianco, giornalista de Il Fatto Quotidiano, sono intervenuti il Procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, l’avvocato della famiglia Borsellino, Fabio Repici, e lo stesso Salvatore.
Lo Bianco ha introdotto partendo dalla citazione dei due processi che si sono conclusi lo scorso anno con delle sentenze e, ancor di più, con delle motivazioni che hanno dato una svolta alla storia italiana: Il processo sulla trattativa Stato-mafia e il Borsellino quater. Il primo ha confermato il
coinvolgimento di una parte delle istituzioni in quello che fu il più vergognoso patto con la criminalità organizzata.
Il secondo ha, invece, confermato che nel corso del primo processo Borsellino, uomini dello Stato hanno messo in atto uno dei più grandi depistaggi della storia italiana, obbligando il falso pentito
Vincenzo Scarantino ad autoaccusarsi della strage del 19 luglio del 1992.
In entrambi i processi resta, tuttavia, insoluta la questione dei mandanti esterni, come ha sottolineato Lo Bianco attraverso la sua domanda iniziale con la quale ha posto l’attenzione sul fatto che, un depistaggio di quella portata, non potesse essere stato deciso e realizzato soltanto da quei pochi che siedono al banco degli imputati nel Borsellino quinquies a Caltanissetta.
Repici, sottolineando la propria passione per le “verità urticanti” dette al momento giusto e non a tempo scaduto, ha usato toni durissimi, affermando che la preoccupazione dei testimoni di
giustizia, intervenuti poco prima su quello stesso palco, avrebbe più di una ragione d’esistere viste le disfunzioni dello Stato nel gestire non solo le loro situazioni, ma anche quelle dei collaboratori di giustizia, dal momento che sarebbero tuttora in mano all’ex capo del Sisde di Messina, nonché
amico e collaboratore di Contrada, Giuseppe De Salvo. Repici si è poi rivolto direttamente a Morra, dicendo nero su bianco che quella persona deve essere tolta da quel posto, se non si vuole che
l’ombra di Contrada permanga sul Viminale.
L’avvocato ha evidenziato anche che nella sentenza di Caltanissetta si definisce via D’Amelio come
una “strage di Stato” aggiungendo che quando Salvatore Borsellino aveva detto la stessa cosa molti anni prima era stato definito “pazzo”.
Inoltre, ha denunciato la mancata convocazione di Salvatore da parte della Commissione regionale
antimafia che si occupa del depistaggio. Tra i collaboratori del Presidente di quella Commissione ci sarebbe anche Vittorio Bertone, figlio dell’Amedeo Bertone Procuratore di Caltanissetta che già durante le inchieste non aveva ritenuto opportuno convocare il fratello del Giudice Borsellino. Un intreccio di accordi e relazioni che sarebbe inquietante secondo Repici .Infine si è parlato di “intossicazioni investigative” come la probabile imminente nuova insidia, che sostituirebbe il negazionismo ormai non più credibile dopo le sentenze citate. Tale intossicazione avrebbe origine a Barcellona Pozzo di Gotto, da dove sono partiti i primi discorsi
sulle stragi e, per Repici, sarebbe da attribuire ad alcuni collaboratori di giustizia, i quali si starebbero affrettando, attraverso le loro rivelazioni, a far sparire alcuni soggetti strutturalmente fondamentali per la ricostruzione dei fatti già avvenuta e confermata dai risultati processuali. Si
tratta di coloro che erano considerati “uomini cerniera” nelle relazioni tra istituzioni e criminalità. Viene citato come esempio l’artificiere della strage di Capaci Pietro Rampulla.
Altrettanto incisive le parole dette da Scarpinato che, senza mezzi termini e con la pacatezza che gli è consueta, ha definito il depistaggio come una costante nel nostro Paese, il quale sarebbe nato
come Repubblica proprio con una strage, quella di Portella della Ginestra.
Da lì in poi si sarebbe concretizzato un susseguirsi di stragi di Stato, fino a quelle di Palermo del ’92 e del ’93 in molte altre città italiane; in esse c’è un unico denominatore: l’impossibilità di giungere a una verità a causa di continui depistaggi, ha aggiunto con tono fermo il Procuratore e, poiché i depistaggi servono a mascherare cose ben più gravi, l’aria si fa pesante in via D’Amelio.
Se ci si chiede come sia possibile che non si conosca il nome di quell’individuo, estraneo a Cosa nostra, che era presente quando la 126 è stata riempita di esplosivo, la risposta è anche nel silenzio
dei collaboratori di giustizia, i quali sono ben consapevoli dell’esistenza di uomini che hanno immenso potere, i quali possono entrare nelle carceri senza lasciare traccia del proprio passaggio
ma che, magari, lasciano un sacchetto di plastica come invito al suicidio. Tutto questo è provato dall’esistenza di quel “protocollo farfalla” oggetto d’indagine, come sostenuto da Scarpinato, il
quale ha anche parlato dell’accelerazione nel realizzare la strage di via D’Amelio, probabilmente decisa per evitare che Borsellino depositasse le dichiarazioni di Gaspare Mutolo.
L’agenda rossa, scomparsa il giorno della strage, è sicuramente l’archivio di tutti questi elementi.
Come si evince anche dalle ultime intercettazioni di Riina, il boss fu spinto ad accelerare i tempi dell’omicidio di Borsellino, nonostante quest’aspetto fosse un danno per Cosa nostra che stava
aspettando il 9 agosto per godersi la fine del provvedimento sul 41 bis, che invece dopo la strage fu immediatamente approvato.
In conclusione, Lo Bianco ha chiesto a Salvatore Borsellino se è possibile che suo fratello avesse realizzato delle copie dell’agenda rossa. Salvatore è convinto di sì, come è certo che ve ne siano
state anche più di una, e che esse siano “scomparse” tutte dopo le numerose perquisizioni attuate in ogni luogo in cui il Magistrato era passato.