Condannati! La trattativa Stato-mafia ci fu, non erano pazzi i pm che avviarono l’indagine

di Enza Galluccio, autrice di testi sulle relazioni tra poteri forti e criminalità organizzata

Ci sono voluti ben sei anni di udienze e diversi giorni di Camera di Consiglio della Corte di Assise di Palermo, presieduta dal giudice Alfredo Montalto, per arrivare a questa sentenza di dura condanna in primo grado.

Dunque che “trattativa”, con relativo ricatto nei confronti dello Stato ci fosse stata e non fosse solo presunta era cosa già nota per molti di noi, contro l’opinione mascherata da certezza di quasi tutti i media nazionali. Si era già espresso in tale direzione il processo di Firenze. Oggi, però, qualcosa è cambiato. Il resoconto finale, drammatico, riunisce tutto il periodo ’92-’94 e ci mostra un quadro completo di quanto avvenuto.

Certamente saranno necessarie le motivazioni delle sentenza per entrare in modo specifico nel merito dei contenuti, ma quanto emerge già oggi è sufficiente almeno ad affermare che quei Pm (per primo Antonio Ingroia e con lui Di Matteo, Teresi, Del Bene e Tartaglia) non erano dei pazzi, né dei sobillatori (pagati dallo Stato ma mossi da chissà quale manovratore) che agivano per influenzare il contesto politico italiano.

Con le stragi del 1992, Capaci e via D’Amelio, si ha il punto di partenza di un indicibile accordo tra apparati dello Stato, i Ros Subranni, Mori e De Donno, che si misero in contatto con i principali boss mafiosi per trattare e salvare la vita di uomini altrettanto corrotti già messi in lista, promettendo in cambio la realizzazione dei famosi dodici punti del “papello”.

Ne fecero le spese i due magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, con uomini e donne di scorta e con la moglie di Falcone, Francesca Morvillo. I due magistrati avevano la colpa di aver capito tutto sulle lunghe e storiche relazioni tra molti politici di rilievo e il mondo criminale. Soprattutto Borsellino portava con sé la responsabilità di aver capito che proprio questa “trattativa”, che oggi definiamo “prima” per differenziarla da quella successiva relativa agli anni ’93 e ’94,  era in atto.

Con la cattura di Riina e durante la latitanza di Provenzano inizia la seconda trattativa, che vide come principale intermediario Marcello Dell’Utri e come riferimento Silvio Berlusconi e la creazione del Partito di Forza Italia, che avrebbe messo il nostro Paese nelle mani dei mafiosi (come traspare dagli atti) oltre che in quelle dell’Imprenditore e dei suoi compagni di merende.

Quindi, una sentenza che mette sul piatto una realtà negata o, per meglio dire, comodamente ignorata da quasi tutte le forze politiche e dalle principali istituzioni dello Stato.

Bisogna, pertanto, fare ancora una volta i conti con l’assurda situazione in cui alcuni di questi personaggi dominano tuttora la scena politica (e, ahimè, il futuro governo!). Infatti, nonostante le gravissime testimonianze di molti collaboratori di giustizia e di mafiosi intercettati, nei confronti di queste figure la sentenza di Palermo consolida e apre nuovi percorsi d’indagini, ponendo l’accento su responsabilità penali e politiche indescrivibili per la loro pesantezza.

Non ci si stupisce di certo rispetto al fatto che questo processo sia stato ostacolato e denigrato da troppi uomini politici e dai loro organi d’informazione. Verrebbe, però, da chiedersi come sia possibile in questo quadro continuare a far finta di niente e ricevere in sedi istituzionali figure che si sono macchiate di responsabilità criminali e potrebbero non aver mai smesso. E non solo, oggi sembra scaturire in modo lecito la domanda sull’opportunità (o meno) di continuare a far riferimento a pilastri storici come l’ex presidente Napolitano, così pronto e attento nel mettersi di traverso proprio nella prosecuzione di questo processo. Il conflitto d’attribuzione, sollevato anni addietro contro l’operato di Ingroia e degli altri pm, suona ancora ambiguo per non dire mirato.