1993: L’Annus Horribilis dell’Italia (Parte prima)

di Marco Gerardi

Probabilmente tutti i media lo sanno. Purtroppo, però, in pochi ne parlano: il 1993 fu uno degli anni più difficili per l’Italia. In quei terribili mesi la mafia continuò a indossare le vesti di organizzazione terroristica assunte nel 1992 e decise di mettere le bombe al di fuori della Sicilia, creando così una forte agitazione nel Paese, anche perché gli obiettivi e le vittime non furono più esclusivamente coloro che avevano affrontato a viso aperto la criminalità organizzata, bensì perfino inermi e semplici cittadini, nonché monumenti di interesse storico ed artistico. Il 2 giugno, davanti a Palazzo Chigi – sede del governo – venne individuata una Fiat 500 imbottita d’esplosivo. Poi ci furono le bombe di via Fauro, nello stesso istante in cui passò l’auto di Maurizio Costanzo: per fortuna, nessun ferito. Ci fu la strage di via dei Georgofili, a Firenze, con 5 morti e il 27 luglio ci fu un’altra bomba, a Milano, in via Palestro, con 5 vittime. Poco dopo l’attentato a Milano, a Roma esplosero due autobombe, che danneggiarono le basiliche di San Giovanni in Laterano e San Giorgio in Velabro (i Presidenti della Camera e del Senato in quell’anno si chiamarono rispettivamente Giorgio Napolitano e Giovanni Spadolini: quasi un messaggio alle due Camere ed alla Chiesa, visti gli obiettivi colpiti). Il 2 dicembre, in questo clima di tensione, in Calabria ci fu un attentato contro i carabinieri, che si concluse fortunatamente con un nulla di fatto, in quanto i killer non riuscirono a colpire i bersagli.
Il 1993 fu l’anno del governo tecnico, dei grandi sconvolgimenti per l’ordine pubblico, della transizione dalla Prima alla Seconda Repubblica. Le stragi – che furono compiute non col solo intento di smantellare il 41-bis e la legislazione antimafia, bensì anche con quello di far crollare ancora di più la fiducia dei cittadini nei confronti della classe politica di allora (e che si interruppero solo con la candidatura ufficiale di Berlusconi, nel 1994) – rientrano nella strategia della vendetta e della tensione inaugurata il 12 marzo del 1992 con l’omicidio di Salvo Lima. Lo stesso ex Presidente della Repubblica – Giorgio Napolitano – testimoniando al processo di Palermo sulla trattativa ha detto che dopo le bombe del 1993, ai livelli più alti delle istituzioni di quel periodo, ci si accorse subito di un attacco diretto da parte della mafia. L’ex Presidente parlò esplicitamente di “un aut-aut nei confronti dello Stato da parte della mafia corleonese per alleggerire la pressione detentiva o, in caso contrario, proseguire nella strategia destabilizzante dello Stato”. Anche l’ex Presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi ha dato importanti informazioni: già il 2 agosto del 1993, partecipando alla commemorazione della strage di Bologna del 1980, affermò dal palco: “E’ contro questa concreta prospettiva di uno Stato rinnovato che si è scatenata una torbida alleanza di forze che perseguono obiettivi congiunti di destabilizzazione politica e di criminalità comune”. Nel 2010, ai pm di Palermo disse di avere temuto nella notte del 28 luglio – quella degli attentati in contemporanea al Padiglione di arte contemporanea di Milano e alle basiliche di San Giovanni in Laterano e San Giorgio in Velabro, a Roma – un colpo di Stato, anche perché i telefoni di Palazzo Chigi rimasero del tutto isolati per alcune ore. “Lo pensai allora e, mi creda, lo penso ancora oggi”. Anche la relazione della Dia nell’agosto del ’93 in un certo senso confermò le parole di Ciampi: “Verosimilmente, la situazione di sofferenza in cui versa Cosa Nostra e la sua disperata ricerca di una soluzione politica potrebbe essersi andata a rinsaldare con interessi di altri centri di potere, oggetto di analoga aggressione da parte delle Istituzioni, ed aver dato vita ad un pactum sceleris attraverso l’elaborazione di un progetto che tende ad intimidire e distogliere l’attenzione dello Stato per assicurare una forma d’impunità ovvero innestarsi nel processo di rinnovamento politico ed istituzionale in atto nel nostro Paese per condizionarlo”. Insomma, approfittarsi della situazione di transizione politica e di conseguente debolezza istituzionale così da poter condizionare gli eventi prossimi a venire.
Altro elemento che conferma quanto scritto finora può essere ravvisato pure nella relazione del 30 giugno 2010 del Presidente della Commissione Antimafia Giuseppe Pisanu, intitolata “I grandi delitti e le stragi di mafia del 1992-1993”. In essa si parlò del “carattere terroristico-eversivo” degli attentati del 1992-1993, di un “mutamento strategico di Cosa Nostra”, che potrebbe essere il risultato di una sua alleanza con “altri esponenti di un più vasto potere criminale”. Non solo: c’è anche l’anomalia della provenienza dell’esplosivo utilizzato in quella stagione. Infatti, l’attentato di via D’Amelio e quelli del 1993 furono effettuati con il “T4 o pentrite, prodotto in Austria, Regno Unito, Svezia e Stati Uniti”, il quale “è fuori commercio in Italia” e che “hanno in dotazione soltanto le nostre Forze Armate. Cosa Nostra ne disponeva in grandi quantità”.
Ancora: L’agenzia di stampa “Repubblica” (che niente ha a che fare con il quotidiano omonimo) vicina a Vittorio Sbardella, ex leader degli andreottiani romani, dopo l’omicidio Lima scrisse che era in atto una strategia della tensione “all’interno di una logica separatista ed autonomista […] volta a consegnare il Sud alla mafia, al fine di costituirsi come nuovo paradiso del Mediterraneo […] mediante un attacco diretto ai centri nevralgici di mediazione del sistema dei partiti popolari […]”.
Oltre a ciò, un soggetto implicato nella strage del 2 agosto del 1980 a Bologna – l’ex neofascista Elio Ciolini – poco prima dell’inizio di tutta la campagna stragista scrisse una lettera al giudice istruttore di Bologna, in cui disse: “Tra poco sarà ucciso un esponente della Democrazia Cristiana, dopodiché ci saranno stragi da marzo a luglio, dopodiché la strategia delle stragi sarà portata al nord per creare una distrazione rispetto alla mafia”. Tutte cose che puntualmente accaddero.
Come stabilito da più sentenze, inoltre, le bombe sono direttamente collegate alla trattativa che si svolse dal 1992 al 1994 tra i vertici della criminalità organizzata e pezzi di Stato. Ad esempio, la Corte d’Assise di Palermo, con la sentenza del processo “Trattativa”, ha affermato, a proposito delle bombe del ’93 – dette anche “bombe del dialogo” – che “è evidente che in quel frangente la strategia di ‘Cosa Nostra’ non era più quella della contrapposizione frontale che aveva condotto alle stragi di Capaci e di via D’Amelio, bensì quella sopravvenuta con la quale si intendeva trarre benefici dalle aperture al dialogo ed alla trattativa che erano giunte ai vertici di ‘Cosa Nostra’ attraverso l’iniziativa dei Carabinieri con Vito Ciancimino”. Al contrario di quanto detto da alcuni, poi, il suo effetto non fu quello di salvare vite umane e fermare altri attentati, ma – come accertato da questa stessa sentenza – di: indurre Cosa Nostra a compiere gli eccidi del 1993, visto che “senza l’improvvida iniziativa dei Carabinieri e cioè senza l’apertura al dialogo sollecitata ai vertici mafiosi, che ha dato luogo alla minaccia al Governo sotto forma di condizioni per cessare la contrapposizione frontale con lo Stato, la spinta stragista meramente e chiaramente di carattere vendicativo – riconducibile alla volontà prevaricatrice di Riina – si sarebbe inevitabilmente esaurita con l’arresto di quest’ultimo nel gennaio 1993”.
Anche i giudici della Corte d’assise di appello di Firenze, in merito alle stragi del 1993 nel capoluogo toscano, a Milano e Roma, il 24 febbraio del 2016 hanno stabilito che la trattativa è provata “dall’avvio poi interrotto di iniziali contatti emersi tra rappresentanti politici locali e delle Istituzioni e vertici mafiosi, è però logicamente postulata dalla stessa prosecuzione della strategia stragista: il ricatto non avrebbe difatti senso alcuno se non fosse scaturita la percezione e la riconoscibilità degli obiettivi verso la presunta controparte”. La Corte ha stabilito anche che “si può considerare provato che dopo la prima fase della cosiddetta trattativa, avviata dopo la strage di Capaci, peraltro su iniziativa esplorativa di provenienza istituzionale (cap. De Donno e successivamente Mori e Ciancimino), arenatasi dopo l’attentato di via d’Amelio, la strategia stragista proseguì alimentata dalla convinzione che lo Stato avrebbe compreso la natura dell’obbiettivo del ricatto proprio perché vi era stata quell’interruzione”.
Se può, quindi, parlarsi di responsabilità morale di coloro che hanno condotto la trattativa, avendo quest’ultima incoraggiato la mafia a mettere altre bombe, può parlarsi al tempo stesso di pesanti ombre in merito alla responsabilità penale di entità esterne nell’ispirazione di tale offensiva terroristica e nell’individuazione degli obiettivi da colpire.


L’ombra dei servizi deviati

Una delle ombre ravvisabili dietro quella stagione riguarda la sigla terroristica “Falange Armata”, che rivendicò tutte le bombe mafiose del ’92-’93, nonché il duplice omicidio vicino Reggio Calabria dei carabinieri Antonino Fava e Giuseppe Garofalo e altri due attentati ad altri carabinieri che per fortuna non mietono vittime. Un’informazione importante su questa sigla è stata data nel 2015 durante il processo di Palermo sulla trattativa, da parte dell’ambasciatore e diplomatico Francesco Paolo Fulci, ex presidente del Cesis (ossia, il Comitato esecutivo per i servizi di informazione e sicurezza) dal maggio 1991 all’aprile 1993. Questi ha rivelato che le telefonate rivolte all’Ansa, in cui la Falange Armata rivendicava le stragi provenivano da cabine telefoniche, spesso vicine alle sedi del Sismi: “C’era questa storia della Falange Armata e allora incaricai questo analista del Sisde, che si chiamava Davide De Luca, gli chiesi di lavorare sulle rivendicazioni. Dopo alcuni giorni, venne da me e mi disse ‘questa è la mappa dei luoghi da dove partono le telefonate e questa è la mappa delle sedi periferiche del Sismi in Italia’. Le due cartine coincidevano perfettamente e in più De Luca mi disse che le chiamate venivano fatte sempre in orario d’ufficio”. Fulci ha anche detto di essersi “convinto che tutta questa storia della Falange Armata faceva parte di quelle operazioni psicologiche previste dai manuali di Stay Behind, facevano esercitazioni, creare il panico in mezzo alla gente e creare le condizioni per destabilizzare il Paese”. L’ex presidente del Cesis scoprì altresì che “all’interno dei Servizi c’è solo una cellula che si chiama Ossi, che è molto esperta nel fare guerriglia urbana, piazzare polveri, fare attentati”.
Cosa Nostra stabilì di usare tale sigla nell’estate del 1991, durante le riunioni di Enna, nelle quali si pianificò la strategia della tensione per ricattare lo Stato. Secondo i magistrati, tra i quali finanche quelli della Procura di Reggio Calabria, “l’idea di rivendicare minacce, attentati, delitti contro figure istituzionali con la sigla ‘Falange Armata’ è stata il parto di alcuni appartenenti a strutture deviate dello Stato”. Quelle strutture che erano già state citate dall’ambasciatore Fulci: “Il loro nucleo era costituito da una frangia del Sismi e, segnatamente, da alcuni esponenti del VII reparto […] che avevano operato per anni agli ordini di Licio Gelli”. Proprio quest’ultimo, come affermano i magistrati di Reggio Calabria, “in modo tanto arrogante, quanto spudorato, sui mezzi d’informazione nazionali, nel 1993, quasi rivendicò la posizione degli stragisti, attribuendola ad un diffuso e giustificato malcontento contro la cosiddetta ‘partitocrazia’, che altro non era che la vecchia classe politica sotto la quale Gelli ed i mafiosi avevano prosperato per alcuni decenni, ma che nell’attualità, evidentemente, non offriva più sponde”.
Per quanto riguarda il presunto coinvolgimento di appartenenti a strutture deviate dello Stato, pertanto, come ha stabilito finanche la Corte d’Assise di Palermo nel capitolo della sentenza “Trattativa” relativo alla Falange Armata, “è forte il sospetto che il fenomeno della Falange Armata abbia potuto avere origine nell’ambito dei servizi di sicurezza dello Stato” e, che siano “ravvisabili gli indizi di concorso nelle stragi mafiose”, seppur non sia stata raggiunta una prova su tale concorso “da parte di esponenti dei cosiddetti ‘servizi segreti deviati’”.
La Falange Armata è tornata agli onori delle cronache nel 2014, quando ha inviato una lettera al boss dei boss Totò Riina, dicendogli: “Chiudi quella maledetta bocca. Ricorda che i tuoi familiari sono liberi. Per il resto ci pensiamo noi”. Riina, infatti, per otto mesi ha condiviso l’ora di socialità con Alberto Lorusso, durante le quali si è lasciato sfuggire minacce e retroscena sulle stragi di mafia e su Berlusconi e Dell’Utri (a proposito del primo disse “ogni sei mesi ci pagava 250 milioni”, mentre a proposito del secondo, definì quest’ultimo “persona seria”.

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