Via D’Amelio, 19 luglio 2018: 26 anni dopo manca ancora la verità

di Enza Galluccio, autrice di testi sulle relazioni tra poteri forti e mondi criminali

Sono passati 26 anni da quel 19 luglio 1992, fa sempre caldo in via D’Amelio, esattamente come allora. Qui il sole non manca mai. Oggi sono anche state depositate le motivazioni della sentenza del processo sulla trattativa. Motivazioni durissime, che mettono un punto fermo su quello che accadde neglla stagione terribile delle stragi mafiose e sulle gravissime responsabilità di chi, tra gli uomini infedeli dello Stato, decise di scendere a patti con Cosa nostra: “Non c’è dubbio – scrivono i giudici – che quell’invito al dialogo pervenuto dai carabinieri attraverso Vito Ciancimino costituisca un sicuro elemento di novità che può certamente avere determinato l’effetto dell’accelerazione dell’omicidio di Borsellino, con la finalità di approfittare di quel segnale di debolezza proveniente dalle istituzioni dello Stato e di lucrare, quindi, nel tempo dopo quell’ulteriore manifestazione di incontenibile violenza concretizzatasi nella strage di via d’Amelio, maggiori vantaggi rispetto a quelli che sul momento avrebbero potuto determinarsi in senso negativo”

Forse solo una coincidenza il fatto che, dopo mesi di attesa, siano state depositate proprio oggi, l’anniversario della strage di via d’Amelio. Per noi che ogni anno siamo qui, in questa via, è un regalo. Certo, non c’è nulla per cui gioire, lo sappiamo bene.

Quella sentenza di condanna e le sue motivazioni confermano che lo Stato con alcuni dei suoi uomini di fiducia, ben protetti e difesi in questi lunghi anni, hanno preso accordi con i principali boss mafiosi come Riina e Provenzano, non per evitare le stragi, che infatti ci sono state e sono continuate per tutto il 1993, fino all’arrivo di Berlusconi al governo con il suo partito Forza Italia fondato dal suo caro amico Marcello Dell’Utri, oggi ai domiciliari dopo essere stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa (art. 416 bis del codice penale e oggi anche per violenza o minaccia a corpo dello Stato, art. 338 c.p., ndr) ma per proteggere ed evitare la morte a quei politici che avevano sempre fatto accordi con la mafia.

Uno scambio, solo quello. E, siccome certi magistrati avevano capito tutto, sono stati eliminati. Tutto è successo, ma nulla era come le altre volte. Non una semplice esecuzione, ma due grandi boati, due esplosioni che avrebbero potuto fare molto di più in termini di vittime. Doveva essere un esempio e una manifestazione di forza per i mafiosi. Ma doveva essere  anche veloce, precisa, eclatante, clamorosa per quello Stato che aveva anche un enorme bisogno di distrarre, di spostare l’attenzione dal fondo che la politica aveva toccato con Tangentopoli, con un Andreotti che perde il posto ambito, con un’intera classe politica pronta a nascondere le proprie responsabilità rispetto ai suoi patti scellerati di lunga data anche oltre oceano che, forse, con  la morte di Aldo Moro avevano già toccato un culmine.

Troppa esigenza, una tecnica che la realtà mafiosa, da sola, non era in grado di garantire, ma i servizi e i loro apparati deviati sì, una collaborazione totale dunque.

Oggi, su questo palco di via D’Amelio, insieme a Salvatore Borsellino e a molte altre vittime della mafia (e dello Stato), per la prima volta è salito anche il Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. A lui si chiede di fare quello che non hanno mai fatto coloro che lo hanno preceduto. Si chiede un’intervento per ristabilire i giusti equilibri nella giustizia, di riconoscere l’importanza delle sentenze di Palermo e Caltanissetta e di agire di conseguenza per arrivare finalmente alla verità.

Come? Ad esempio apportando quelle modifiche necessarie per far sì che certi reati, non ancora previsti dal codice penale, vengano scritti e ad essi corrispondano altrettante pene riconosciute ed applicate, che diventi reato trattare  con dei mafiosi per propri interessi e con l’aggravante di essere parte delle istituzioni, che vengano aperti gli archivi di Stato e si sappia la verità su tutte le stragi italiane rimaste impunite per i mandanti.

Il Ministro ha risposto che cercherà di evitare le parole ma, ad esse, farà corrispondere i fatti, quelli che rientrano nelle competenze del suo ministero. Non è molto come promessa, ma parla di responsabilità penali accertate anche per uomini dello Stato, non nega il valore di quelle sentenze che le testimoniano e che le condannano; non parla di magistrati politicizzati né sminuisce o modifica il senso dei processi siciliani che stanno segnando una svolta nella storia italiana.

E’ intervenuta anche Giulia Sarti, della Commissione Giustizia alla Camera. La Sarti non è mai mancata in via D’Amelio, prima di essere una figura politica apparteneva al Movimento delle Agende Rosse di Salvatore Borsellino. Le sue parole sono state più incisive, quasi un  grido di protesta, chiede che venga istituita una Commissione Parlamentare sulle stragi avvenute in Italia, per sostenere le azioni della magistratura e non certo per sostituirsi ad esse.

Intanto sono le 16.58, è giunto il momento del silenzio.