DISSESTO IDROGEOLOGICO: MANCA UNA VISIONE POLITICA A LUNGO TERMINE

di Francesco Bertelli

 

 

Ogni autunno , da oltre un decennio a questa parte, pare che la vita dell’Italia da Nord a Sud sia un tutt’uno con le tragedie ambientali parossistiche dovute alle pessime condizioni in cui versa il territorio. Ormai accade di frequente che nel periodo che va da settembre a dicembre (ma anche in estate perchè i periodi di grande caldo anomalo e siccità non sono altro che l’altra faccia della medaglia della crisi ambientale) l’Italia entra in un vortice di caos e di rischio di vite umane, sintomi di fragilità e di una totale assenza di visione ad ampio respiro a livello gestione politica dell’emergenza ambientale.

Si torna così a parlare di dissesto idrogeologico e di emergenza ambientale ma ci dobbiamo subito fermare nel ragionamento. Parlare di “emergenza” è ormai fuori luogo: è più corretto parlare di costante aumento di un cambiamento climatico globale che interessa anche il nostro paese che a livello politico si ostina ancora a ragionare in termini di una visione emergenziale.

Dopo gli ultimi recentissimi eventi (dai 187 cm di acqua alta a Venezia, alle alluvioni in Emilia e Maremma, ai continui smottamenti del centro-sud, passando per i torrenti in piena nei centri storici di Matera), il governo italiano ha assicurato che metterà il dissesto idrogeologico al centro dell’attenzione nelle sue prossime riunioni. Rimane però un mistero su quali tecniche e procedure il governo voglia concentrarsi per trovare una soluzione alle frane e alle alluvioni che l’Italia continua inerme a subire.

Il buon Enzo Vallecchia su qualenergia.it ci ricorda un dettaglio non da poco e totalmente oscurato dai media nostrani. La Corte di Conti è intervenuta proprio un paio di settimane fa sul tema dell’utilizzo del fondo per la progettazione degli interventi contro il dissesto idrogeologico fotografando meglio di chiunque altro il modus operandi della politica italiana su questo tema: “ l’approccio emergenziale, da un lato e , dall’altro le riforme continue della governance, conseguenti alla necessità di trovare soluzioni straordinarie alle criticità via via emerse, le procedure lente di assegnazione delle risorse e altre vischiosità procedimentali, hanno reso in larga parte inefficace l’intervento pubblico nazionale del settore”.

Quando il Ministro dell’Ambiente Sergio Costa (una figura indubbiamente di alto calibro all’interno del Conte 2) afferma di aver già stanziato 315 milioni di euro nel 2019 per finanziare progetti esecutivi di tela del territorio dal dissesto idrogeologico, definendo tali opere come “di estrema urgenza e indifferibilità”, sbaglia prospettiva di analisi. Urgenza ed emergenza sono due vocaboli che andrebbero aboliti in merito alle analisi sui cambiamenti climatici e i loro relativi rimedi da affrontare. Denota una mancanza di programmazione , tutta italiana, di ampio respiro per il futuro imminente.

Sempre la Corte dei Conti, infatti ci sottolinea come le risorse effettivamente erogate alle Regioni, a partire dal 2017, rappresentano soltanto il 19,9% del totale complessivo in dotazione al Fondo”, pari a circa 100 milioni di euro. Spiccioli.

E’ di questi giorni la notizia che riparare i danni del rischio idrogeologico ci costa di più che prevenirli (per la precisione, quattro volte di più). Secondo i dati Ispra dal 1998 al 2018 il nostro Paese ha speso circa 20 miliardi di euro per rimediare agli effetti del dissesto (un miliardo all’anno in media, considerando che dal 1944 ad oggi sono stati spesi 75 miliardi di euro) a fronte di 5,6 miliardi di euro investiti in progettazione e realizzazione di opere di prevenzione (circa 300 milioni l’anno) .

Sempre su qualenergia.it è illuminante il messaggio lanciato da Sergio Castelllinari, fisico dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV). Per far fronte ad una reazione concreta, evitando visioni puramente emergenziali, occorrerebbe aumentare le capacità decisionali dei tecnici, coordinandone l’azione ai livelli apicali dello Stato, a livello cioè di Presidenza del Consiglio. “Manca una forte e chiara governance nazionale climatica, in particolare sull’adattamento e la mitigazione. Nel caso dell’adattamento, questa governance, che potrebbe essere un’unità sotto la presidenza del Consiglio, potrebbe coordinare, monitorare, verificare l’efficacia delle azioni di adattamento che devono essere attuate a livello regionale e comunale, però con un consistente e coerente finanziamento nazionale. Questa governance deve essere non solo per il dissesto idrogeologico, ma anche per tutte le calamità naturali, come le ondate di calore, le siccità, l’innalzamento del livello del mare, i cui disastri possono essere ridotti tramite efficaci azioni di adattamento preventivo”.

E proprio nei giorni di allerta meteo è tornato alle cronache nostrane il pericolo dell’innalzamento del livello dei mari che ci ha mostrato per la prima volta dal 1966 ben 4 giorni di acqua alta a Venezia. A pennello è calzato lo studio del Climate Central pubblicato sul The Guardian, in cui si evidenza come nel 2050 (stiamo parlando quindi di mutamenti dietro l’angolo) saranno oltre 300 milioni le persone che in tutto il mondo vivranno in zone a rischio; stime ben più pessimistiche di quelle che il Climate Center aveva pubblicato nello studio precedente del 2015. L’analisi è stata compiuta tenendo in considerazione indicatori diversi che portano a scenari differenti, ma sempre allarmanti. Si parte dai limiti di temperatura da non oltrepassare indicati dall’Accordo di Parigi sul clima, adottato da 195 nazioni ma dal quale gli Stati Uniti guidati da Trump hanno appena detto di voler uscire. L’intesa raggiunta nel 2015 (a fatica e in gran parte disattesa dagli stessi Paesi firmatari, Ue e pochi altri esclusi) indicava di non superare i 2 gradi di aumento di temperatura nel 2100 rispetto ai livelli preindustriali, pena gravi conseguenze ambientali. Ma che sarebbe meglio non superare il limite di +1,5 °C. In realtà, come hanno sottolineato gli scienziati al momento stesso della firma dell’Accordo, i piani volontari che le nazioni si erano impegnate a rispettare sono del tutto inadeguati a contenere l’aumento di temperatura. Anzi, vista la tendenza in atto che ha portato la concentrazione di anidride carbonica a raggiungere a maggio i 410 ppm (parti per milione), 90 ppm in più del 1960, si sta andando verso un incremento di ben 4 gradi entro la fine del secolo. L’anno scorso l’Ipcc (agenzia Onu sui cambiamenti climatici) aveva indicato che per rispettare gli impegni assunti le emissioni di gas serra dovevano calare del 50% entro il 2030 per essere in linea con l’obiettivo dell’incremento di 1,5 gradi.

Tale studio si concentra anche in modo particolare su casa nostra. L’Italia, infatti, con le sue coste, rappresenta uno dei Paesi più a rischio. Con proiezioni diverse per il 2050 e il 2100 notiamo come molte zone costiere abbiano le ore contate senza una svolta politica che guardi all’immediato futuro, sia che si parli del 2050, sia che si parli del 2100. Da Monfalcone a Cattolica (con Venezia al centro), passando alla Maremma toscana (da Piombino ad Orbetello passando per Follonica), arrivando alla Versilia da Carrara a Pisa e scendendo nella costa laziale da Civitavecchia ad Anzio , senza dimenticarci della  pianura Pontina tra Terracina a Sezze, la piana intorno a Caserta, in Sardegna le bonifiche di Oristano e gli stagni presso Cagliari, in Puglia l’area a sud di Manfredonia.

Molte di queste vaste aree sono state proprio interessate (coincidenza a parte) una settimana dopo la pubblicazione dello studio, dalle ultime calamità naturali: Venezia, Maremma (esondazioni continue dei fiumi Ombrone e Bruna) e costa Laziale, erosioni sulla fascia adriatica causa mareggiate.

Negli ultimi 50 anni, i morti in italia per le alluvioni  sono stati 1836 e gli evacuati e senza tetto oltre 321.000. Solo nel 2018 i morti per frane ed inondazioni sono stati, solo in Italia, 38 e oltre 4.500 gli evacuati e senza tetto. Nell’ultimo decennio sono stati 14 i miliardi spesi causa danni per alluvioni e siccità, con perdite gravissime nella produzione agricola nazionale e danni alle strutture e alle infrastrutture nelle campagne.

Non si tratta di fenomeni che vedremo solo fra 50 o 70 anni. Sono fenomeni già in atto e non basta lanciare frasi ad effetto o stanziare qualche centinaia di milioni di euro una tantum. Finchè non si crea un cabina di regia ad hoc per il cambiamento climatico, direttamente alle dipendenze della Presidenza del Consiglio, finchè non si inserisce come primo punto all’ordine del giorno di qualsiasi legge di bilancio il problema del rischio idrogeologico (che va a braccetto con l’erosione costante delle nostre coste) si finirà ogni anno di parlare delle stesse cose e ad assistere agli ennesimi danni irreparabili alla vita del nostro Paese e al pericolo costante della vita di tutti noi cittadini.