Amianto, il minerale killer. Svoa, Materit e altre storie

di Alessio Di Florio

Amianto. Una parola che per anni ha animato le cronache nazionali, facendo emergere storie le più diverse. Oggi quella che è una vera strage silenziosa sembra non interessare più. I riflettori si sono abbondantemente spenti e quando se ne sente parlare spesso è solo per le proteste per uno smaltimento costoso e “burocratizzato”. Eppure continua a seminare morte. E ad animare processi penali. Tra i più famosi degli ultimi anni sicuramente quello contro l’Olivetti e l’Eternit di Casale Monferrato. Nel novembre 2013 la Procura di Ivrea aprì l’inchiesta su venti operai morti che avevano lavorato – tra la fine degli Anni Settanta e l’inizio degli Anni Novanta – al locale stabilimento della Olivetti. Operai, evidenziò la Procura, che avevano lavorato in reparti contaminati da fibre di amianto e si erano dopo anni ammalati di mesotelioma pleurico, un raro tumore maligno riconducibile ad una prolungata esposizione all’amianto. Ad aprile dell’anno scorso, dopo le condanne in primo grado, la Corte d’Appello di Torino ha assolto tutti gli imputati (tra cui i più noti Carlo De Benedetti e Corrado Passera) perché “il fatto non sussiste”. Secondo i giudici c’erano “insormontabili carenze probatorie laddove si è cercato, da un lato, di dimostrare la sussistenza di esposizioni al fattore di rischio causalmente rilevanti nei periodi in cui si assume che ciascun imputato abbia ricoperto una posizione di garanzia; dall’altro, di applicare alla causalità individuale le acquisizioni epidemiologiche relative all’eziologia delle malattie tumorali asbesto-correlate“. Casale Monferrato ha ospitato lo stabilimento Eternit più grande d’Europa, il 28 aprile dell’anno scorso (in occasione della Giornata Mondiale vittime dell’amianto) Giuliana Busto, presidente dell’Afeva (Associazione famigliari e vittime amianto) della città dichiarò “la media è sempre di un morto per mesotelioma alla settimana”. Nel novembre 2014 si è conclusa in Cassazione una lunga battaglia processuale che vedeva imputati i vertici della multinazionale. Il verdetto fu netto: intervenuta prescrizione e cancellazione di ogni condanna. Si legge nelle motivazioni che la prescrizione era intervenuta già prima del rinvio a giudizio e il verdetto, annullando le condanne, ha cancellato anche i risarcimenti ai familiari delle vittime.

ULTIME NOTIZIE DAI TRIBUNALI
Alcune delle ultime novità giudiziarie sulle morti causate da malattie legate all’esposizione all’amianto sono state rese note da Medicina Democratica negli ultimi mesi. Il 14 gennaio scorso il Tribunale di Padova ha assolto 8 vertici della Marina militare, accusati di “omicidio colposo plurimo” per la morte e patologie legate all’amianto di un migliaio di lavoratori, personale militare della Marina. Al termine del processo lo stesso Pubblico Ministero ha chiesto l’assoluzione degli imputati perché “il fatto non sussiste”. “Sono troppe le domande – scrive Medicina Democratica – ci sono stati circa un migliaio di malati e di morti per malattie correlate all’amianto di personale militare della Marina? Sì, ma il fatto non sussiste! Sono morti per esposizione all’amianto? Sì, ma il fatto non sussiste! Le navi militari erano piene di amianto? Sì assolutamente, ma il fatto non sussiste! Le persone colpite da malattie dovute all’amianto, in particolare il mesotelioma pleurico, sono decedute dopo enormi sofferenze? Sì, ma il fatto non sussiste! Ma non esistevano leggi che stabilivano che la salute e la sicurezza dei lavoratori doveva essere salvaguardata ? Sì ma il fatto non sussiste! Ma non esistevano dei responsabili? NO, perchè il fatto non sussiste”. La stessa associazione a fine dicembre ha lanciato un appello dopo le assoluzioni al processo “Pirelli Bis” di Milano. Sentenza arrivata il 19 dicembre 2016 che ha assolto 9 ex manager della Pirelli, imputati con l’accusa di omicidio colposo plurimo per la morte per mesotelioma di 28 lavoratori dell’azienda negli Anni 70/80, ma le cui motivazioni sono state depositate soltanto dopo due anni. E, scrivono da Medicina Democratica, dopo “dopo la protesta dello stesso Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio, di Medicina Democratica, dell’ Associazione Italiana Esposti Amianto e delle parti civili, che il 6 dicembre hanno presentato una segnalazione al Presidente del Tribunale di Milano, Dr. Roberto Bichi, e al Presidente della V Sezione Penale del Tribunale di Milano, Dr. Ambrogio Moccia per denunciare il grave danno rappresentato da questo ritardo per le Parti Civili, rappresentate dall’avv. Laura Mara, impossibilitate di fatto ad agire”. Secondo l’associazione per l’estensore della sentenza nel processo Pirelli bis “sono rilevanti solo le prime esposizioni, quindi se i lavoratori sono stati contaminati nei primi anni di lavoro possono tranquillamente continuare a lavorare con la fibra killer o i cancerogeni perché il continuo avvelenamento è irrilevante! E inoltre sembrerebbe mettere in discussione la correlazione amianto-mesotelioma, da decenni acclarata da tutta la letteratura scientifica a livello internazionale”.

AMIANTO BANDITO IN ITALIA NEL 1992 MA PERICOLOSITA CONOSCIUTA DA DECENNI PRIMA
L’Osservatorio Nazionale Amianto nel giugno scorso ha reso noto che, solo nel 2017, le malattie legate all’amianto hanno ucciso 6.000 persone mentre decine di migliaia sono state le persone ammalatesi. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, basandosi sulle statistiche relative a mesotelioma, tumore polmonare e asbestosi, ha calcolato i morti in 104.000. Secondo molti studi scientifici il maggior numero di morti ci saranno tra il 2020 e il 2025. Tra i primi Stati a dimostrare la pericolosità dell’amianto per la salute umana fu l’Inghilterra nel 1930. Nel 1943 la Germania attestò il cancro al polmone e il mesotelioma come conseguenza dell’inalazione delle fibre, riconoscendo anche risarcimenti per i lavoratori colpiti. Così come accadde in Italia dopo la legge 257. Una legge giunta al termine di un percorso che ha attraversato larga parte del Novecento. Infatti, per la prima volta in Italia una sentenza del Tribunale di Torino dichiarò nocive per la salute le lavorazioni dell’amianto già nel 1906. Una sentenza confermata l’anno dopo dalla Corte d’Appello. Nel 1941 intervenne la Corte di Cassazione, confermando precedenti sentenze di condanna a risarcire i danni subiti da vittime dell’amianto. Due anni dopo la legge 455 indennizzò per la prima volta l’asbestosi come “malattia professionale”. Notevole importanza a livello internazionale ebbe la “Conferenza Internazionale sugli effetti biologici dell’asbesto” che si tenne nel 1964 presso la New York Academy of Sciences. La Conferenza giunse alla conclusione che si doveva evitare qualsiasi esposizione all’amianto, cancerogeno anche a basse dosi.

LA VICENDA DELLA SVOA DI VASTO (CHIETI), DANNEGGIATI DALL’AMIANTO E BEFFATI DALLO STATO
La Svoa (Società vastese Oli Alimentari) è stata una storica azienda di Vasto in provincia di Chieti. Sorgeva nell’area industriale di Punta Penna, a pochi passi dal mare e dalla stupenda Riserva di Punta Aderci, e chiuse i battenti nel 1993 dopo che la società fu dichiarata fallita. Per decenni gli operai hanno lavorato in un fabbricato e con macchinari industriali dove l’asbesto (o amianto) era quasi l’unico materiale presente. Un anno e mezzo fa ho avuto la possibilità di ricostruire tutta la vicenda degli ex lavoratori Svoa con Franco Cucinieri, ex lavoratore della fabbrica e oggi tecnico ENEA e referente dell’Osservatore Nazionale Amianto che assiste tutti i lavoratori coinvolti nella vertenza. Iniziata nel 2001 quando lo stesso Cucinieri scoprì la morte di un suo ex collega, Michele Acquarola. Colpito dal mesotelioma, Acquarola aveva subito vari interventi di asportazione di parti del polmone. Chiese il riconoscimento della “malattia professionale” ma non riuscì ad andare oltre l’invalidità civile. Riconoscimento che avevano ottenuto altri due ex operai. “La vedova Acquarola – racconta Cucinieri – mi autorizzò ad accedere al certificato necroscopico di Michele. Nel frattempo ci fu un altro decesso, contattai la famiglia e ottenne anche in questo caso di poter accedere al certificato necroscopico”.
L’anno dopo nacque il Coordinamento Esposti Amianto. Da un esposto in Procura presentato dal Coordinamento partirono le indagini a carico di tre ex dirigenti dello stabilimento. L’attenzione degli inquirenti si concentra sulla morte di due ex operai della SVOA. Il procedimento è stato chiuso nel 2009 per “intervenuta prescrizione”.
La famiglia Acquarola nel 2006 decise di ricorrere anche al Tribunale del Lavoro. Già l’anno successivo il giudice del lavoro riconosce la “malattia professionale” (sentenza confermata anche dalla Corte d’Appello aquilana), obbligando l’INAIL a riconoscere alla vedova la rendita prevista dalla legge per i familiari di operai morti per asbesto.
E’ il 2004 quando la partita giudiziaria si apre anche nei confronti dell’INPS per il riconoscimento della pensione relativa a tutti gli ex lavoratori della SVOA. Il Tribunale di Vasto emette una prima sentenza favorevole ai lavoratori nel 2008, confermata l’anno dopo dalla Corte di Appello. L’INPS inizia ad applicare la sentenza ma, contestualmente, promuove ricorso in Cassazione. E il 14 Agosto 2012, con la sentenza n. 14492 la Corte ribalta le precedenti sentenze e accoglie il ricorso dell’istituto previdenziale. Motivazione: “erroneamente la Corte territoriale non avrebbe considerato, ai fini del riconoscimento del beneficio pensionistico in questione, la soglia espositiva minima pari a 0,1 fibre per centimetro cubo, valore già previsto dal Decreto Legislativo n. 277 del 1991, articolo 24 e poi solo modificato dal Decreto Legge n. 269 del 2003, articolo 47 convertito con modifiche nella Legge n. 326 del 2004”. Nel caso dell’ex SVOA non sarebbe stato documentato in maniera qualificata il superamento di questa soglia. E, scrivono sempre i giudici, “neanche la certificazione INAIL costituisce prova esclusiva dell’esposizione qualificata”. Viene così cancellato il riconoscimento di alcuni diritti previdenziali e sanitari: la legge prevede anche una “sorveglianza sanitaria” agli ex lavoratori con patologie asbesto-correlate. E l’Istituto previdenziale ha chiesto la restituzione di quanto già erogato. Gli ex lavoratori rischiano di dover restituire somme tra i 20 e gli 80 mila euro. Cesare Damiano, membro della Commissione Lavoro della Camera dei Deputati nella scorsa legislatura, ha definito la vicenda di “una vera e propria ferocia burocratica”. A maggio 2017 il senatore del Movimento 5 Stelle Gianluca Castaldi ha presentato un’interrogazione parlamentare per chiedere l’intervento del Ministero a favore dei lavoratori. Il 3 agosto dello stesso anno la Commissione Lavoro della Camera ha approvato una risoluzione per impegnare il Governo a verificare la possibilità legale di esentare gli ex lavoratori dal restituire quanto già percepito.
In passato – sottolinea Franco Cucinieri – la Cassazione non aveva fatto riferimento a determinate soglie ma soltanto alla elevata probabilità di esposizione. Un orientamento confermato anche successivamente. Infatti per 4 lavoratori, che si sono rivolti ai tribunali successivamente alla sentenza della Cassazione, il riconoscimento c’è stato e ormai è definitivo”. Il riferimento alle soglie rende più che perplesso Cucinieri, chimico professionale. L’amianto, ci ribadisce, ha un indice di volatilità più unico che raro, altissimo, e quindi non dovrebbe essere possibile fare riferimento a determinate soglie. Tramite il sangue umano può raggiungere qualsiasi organo. In più attività come quelle della Svoa rientravano in un particolare codice Istat. Previsto lì dove c’è presenza di componentistica in amianto. La legislazione, addirittura, per le attività che ricadono in questo codice prevedeva il pagamento di un contributo supplementare all’INAIL. Un contributo che, riferisce sempre Cucinieri, la Svoa non avrebbe mai versato.

LA SITUAZIONE NEI CAPANNONI AZIENDALI DELLA SVOA DI VASTO
La Svoa lavorava raffinando e commercializzando oli vegetali per uso alimentare. Inizialmente doveva produrre 25.000 chilogrammi al giorno tra olio raffinato e sottoproduzione, successivamente la capacità fu ampliata a 110.000 chilogrammi al giorno. I lavoratori erano in continuo e costante contatto diretto con l’asbesto. I capannoni erano ricoperti di lastre di amianto. E nell’impiantistica l’amianto era utilizzato in maniera massiccia. Infatti non solo tutti i capannoni dell’azienda erano ricoperti di lastre di amianto, ma anche tutta l’impiantistica ne prevedeva un uso massiccio: guarnizioni, giunti accoppiati, scaricatori di condensa e gli strumenti per la lavorazione degli oli erano composti da una considerevole parte di amianto. Persino i guanti protettivi forniti per proteggersi dalle ustioni erano in amianto. La situazione era aggravata – testimonia Cucinieri nella nostra intervista – dalle correnti che rimuovevano continuamente le polveri e le fibre di amianto disperdendole nell’aria. E all’esterno del sito era presente una discarica dei materiali di risulta contenenti amianto.
L’azienda era divisa in sei capannoni, a cui si aggiungevano anche la centrale termica, il “magazzino ricambi” e l’officina meccanica. Nel magazzino “l’infiltrazione degli scarichi provenienti dai camini delle caldaie ricadevano sulla copertura in eternit del magazzino causando dispersioni all’interno. C’erano giorni in cui rimanere nel locale era impossibile”. Nell’officina meccanica c’era “l’abitudine alla pulizia dei tavoli da lavoro e degli strumenti con aria compressa”. Due o tre volte l’anno nella centrale termica avveniva la manutenzione dell’impianto e della strumentazione “rimanendo all’interno delle caldaie per turni interi, rimuovendo e riapplicando gli sportelli in amianto con le sostituzioni dei cordoni in amianto. Oltre a sostituire tutte le guarnizioni di amiantite” (composta da gomma e amianto e che era venduto anche con il nome di “sirite”). Materiali composti anche di 10 o 15 lastre a cui si aggiungevano cordoni di 80 o 100 metri (tutto composto da amianto) e una quantità incalcolabile di varie guarnizioni.
All’interno del Capannone 2 (2000 metri quadrati dove si trovavano tutti gli impianti di raffinazione) l’esposizione era “peggiorata dalla presenza di due ventilatori con le pale all’ultimo pianto che aumentavano la circolazione delle polveri”. Le lavorazioni sulle guarnizioni provocavano dispersione delle fibre di amianto anche negli altri reparti.
E’ lapidaria la risposta di Franco Cucinieri alla domanda se i lavoratori avevano una qualche conoscenza dei rischi per l’esposizione all’amianto. “Nel 1975 gli unici rischi conosciuti erano chimici (come l’uso di soda caustica) o legati agli infortuni. Cominciammo a capire solo verso la fine degli Anni Ottanta dopo il riconoscimento per esposizione ad amianto ad un lavoratore della ICIC di Ancona. Azienda con cui la Svoa condivideva proprietà e lavorazione e che aveva iniziato il riconoscimento addirittura tramite il Ministero del Lavoro. Lo scoprimmo quando questo lavoratore venne in trasferta da noi. Provammo anche noi a chiedere lo stesso percorso ma non ci riuscimmo. La Icic aveva anche pagato il contributo supplementare all’INAIL per l’amianto. All’incirca nello stesso periodo un lavoratore di Taranto, licenziatosi da un’azienda simile alla nostra in Puglia, fu assunto alla Svoa. Dopo il suo arrivo fu contattato da un patronato tarantino che gli comunicò il riconoscimento per l’esposizione all’amianto”.
Durante l’incontro avuto Franco Cucinieri sottolinea varie volte che quanto testimonia “è stato documentato e presentato anche alla Procura e a tutti gli enti possibili”. Alla Procura di Vasto e all’INPS è stato depositato un fascicolo dettagliato con tutte le diagnosi ospedaliere di asbestosi. Durante il processo penale i figli di un lavoratore testimoniarono che la sera, al ritorno a casa, a volte il padre non riusciva neanche a mangiare per i fortissimi attacchi di tosse. Erano molti i lavoratori con forti problemi respiratori, anche mentre lavoravano. Ma “non venivano mai correlati all’amianto. Si pensavano ad alcuni composti chimici al massimo” considerando anche l’uso di “terre decoloranti” e “farine fossili” (contenute in sacchi da 25 chilogrammi) che “potevano procurare polveri insalubri che si depositavano sui pavimenti. La cui pulizia avveniva con scope che rimuovevano le polveri dal pavimento ma potevano disperderle ulteriormente”.

LA MATERIT DELLA VALBASENTO, MATERA
E’ approdata qualche mese fa davanti al gup di Matera la vicenda della ex Materit (già Cemeter) di Ferrandina, in Val Basento. Cinque gli imputati nella vicenda giudiziaria avviata il 6 novembre scorso: Silvano Benitti (Capo servizio tecnico della Cemater dal 1975 ai primi mesi del 1979), Pietro Pini (direttore dello stabilimento Cemater sempre nel periodo 1975-1979), Michele Cardinale (vice presidente del Cda della Materit dal 26 settembre 1984 all’11 ottobre 1985), Michele Bonanni e Lorenzo Mo (componenti del Cda della Materit dall’11 ottobre 1985 fino alla cessazione di attività dello stabilimento, avvenuta il 18 settembre 1989). Le accuse sono di “colpa generica consistita in negligenza, imprudenza e/o imperizia, nonché per colpa specifica consistita in violazione di norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, cagionavano il decesso di ex lavoratori della fabbrica Materit di Ferrandina, nonché malattie professionali ad altri lavoratori”. Giovanna Desimmeo è la vedova di ex operaio della Materit. “Mi ricordo di quando mio marito mi raccontava di aver mangiato il panino direttamente sul sacco pieno di amianto – ha raccontato al quotidiano La Nuova del Sud – Mi ricordo che quando tornava a casa, prendevo la sua tuta da lavoro e la infilavo in lavatrice insieme alle mie cose e a quelle delle mie figlie. Adesso lui non c’è più e, credimi, mi manca tutto perché lui era il perno della famiglia. Mi manca come l’ossigeno e adesso che ho scoperto di avere anch’io delle macchie ai polmoni e sto facendo i controlli da sola, mi manca ancora di più. Chiediamo la bonifica dell’area e se ci spetta anche qualcosa per noi”. L’attuale vicenda giudiziaria della ex Materit è iniziata nel 2012 quando oltre 50 (su 100) ex lavoratori hanno presentato una denuncia alla Procura di Matera.
Oggi lo stabilimento è completamente abbandonato. Al suo interno vi sono ancora 600 sacchi pieni di amianto tossico pericoloso. Un’inchiesta del maggio scorso di Tg2000 ha documentato che da alcuni sacchi, che dovrebbero essere sigillati, fuoriesce polvere di amianto. L’ex stabilimento confina con il fiume Basento che sfocia nel Mar Ionio. Un censimento dei rifiuti presenti nell’area è stato effettuato nel 2005: una quantità imprecisata di amianto bianco e amianto blu, 400 tonnellate distribuite in big-bags di fanghi recuperati dalle vasche e dai coni di decantazione contenenti amianto in concentrazione pari allo 0,5 per cento, 25 tonnellate circa in 110 big-bags di rifiuti friabili polverulenti contenenti amianto, 15 tonnellate in 12 big-bags di ceneri volanti da sili di stoccaggio, 5 tonnellate in 5 bib-bags di polvere di silice alcuni dei registrati. Nello stesso anno una relazione tecnica ha rilevato amianto e manganese in quantità superiori alla norma nei terreni e nelle acqua di falda nei pressi dell’ex stabilimento. Nel 2010 la vedova di un ex operaio deceduto ha rivelato all’Espresso “Mi sentivo stanca, pensavo fosse per quello che ho dovuto passare negli ultimi tempi. Invece ho fatto gli esami ed è venuto fuori che avevo un tumore al seno. Ma non ero preoccupata, so che si può guarire e ho fiducia nella scienza. Poi invece la Tac ha trovato metastasi ovunque e mi hanno detto che era inutile pure l’operazione”. Leggiamo in un esposto di Medicina Democratica del 2013 che “10 operai degli 86 che ci lavoravano sono morti, 16 si sono ammalati e tutti gli altri vivono un’esistenza sospesa fra controlli medici e il sospetto di essere già condannati”. Nello stesso esposto si ricostruisce brevemente le vicende dell’azienda. “L’ex Materit s.r.l., azienda del gruppo Fibronit con sede amministrativa a Casale Monferrato – scrive il rappresentante legale dell’associazione nell’esposto – è stata in attività dal 1973 al 1989, quando fu chiusa dal Nucleo Operativo Ecologico dei Carabinieri proprio a causa della mancanza di una discarica autorizzata per lo smaltimento dei propri rifiuti. L’azienda fu posta in liquidazione e i lavoratori furono messi in cassa integrazione”.