A scendere in campo era Cosa Nostra – Trattativa Stato-mafia

di Enza Galluccio, autrice di testi sulle relazioni tra poteri forti e mondi criminali

Da quel che è riportato nelle motivazioni  della sentenza del processo sulla trattativa tra lo Stato e la mafia, la parola pronunciata da Giuseppe Graviano durante un’intercettazione in carcere, senza più ombra di dubbio, risulta essere “Berlusca” e non “Bravissimo”. Nel particolare, Graviano ha affermato che, quel “Berlusca” aveva chiesto una “cortesia” e, per fare questo favore a lui, la mafia avrebbe fatto le stragi con “urgenza”.

È quanto emerso dall’ascolto dell’audio, ripulito da ogni altro disturbo, che ha permesso di distinguere quell’abbreviazione (tra l’ironico e il confidenziale)  del nome dell’ex primo ministro Silvio Berlusconi.

Quindi quel Graviano, boss mafioso mai pentito, esecutore dell’attentato in via D’Amelio e delle stragi del ‘93 in tutta Italia, ha ulteriormente confermato il rapporto di scambio con la figura imprenditoriale e politica che era a capo del governo prima nel 1994-1995 (governo Berlusconi I), poi dal 2001 al 2006  (governi Berlusconi II e III) e, infine, dal 2008 al 2011 (governo Berlusconi IV) per ben tre legislature e, nonostante molti dei fatti oggi confermati dal giudizio di Palermo fossero già noti e divulgati da parecchi mezzi d’informazione (certamente non tutti) la sua forza politica è stata votata non solo dai mafiosi, ma anche da molti altri elettori.

Oggi il quadro si fa sempre più completo. In ballo c’erano anche diverse centinaia di milioni (in lire) che l’allora premier Berlusconi versava nelle casse della mafia per mezzo dell’amico fidato Dell’Utri e di Vittorio Mangano, “stalliere” di casa Arcore, i quali, più che una funzione intimidatoria avrebbero svolto un “ruolo cerniera” tra Cosa nostra e Berlusconi per l’attuazione di alcune leggi, decreti o modifica di normative preesistenti, soprattutto in campo giudiziario, in relazione alla permanenza in carcere dei mafiosi condannati e al 41 bis. Vale a dire un recupero di quell’equilibrio nei rapporti tra politici e criminali appartenenti alla mafia che si era interrotto con il maxiprocesso e con l’attuazione del “carcere duro” cui erano stati sottoposti i boss dopo via D’Amelio.

Tutto si sarebbe realizzato con il “pacchetto Biondi” (come riportato anche dal pentito Giovanni Brusca) anche se l’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni aveva affermato che il testo approvato era stato modificato dopo la lettura ufficiale, con l’inserimento di norme che agevolavano in qualche modo la mafia, così com’è stato testimoniato dallo stesso Maroni durante il processo in aula bunker. La modifica più eclatante riguardava l’obbligo di informare l’indagato delle indagini aperte sul suo conto, vanificando evidentemente ogni tipo di inchiesta, così come segnalato, allo stesso Maroni, dall’allora procuratore generale di Palermo Giancarlo Caselli. Quella segnalazione fece sì che il decreto citato fosse ritirato prima della sua conversione in legge.

Una relazione durata circa vent’anni quella tra Berlusconi e i boss mafiosi che, senza mai perdere il supporto di Dell’Utri, oltre alle leggi in ambito giudiziario, ha previsto ad esempio anche il pagamento di somme ingenti a favore di Cosa nostra per l’installazione di ripetitori televisivi in territorio siciliano.

A questo punto, dopo la lettura di quanto trascritto nelle motivazioni della sentenza di Palermo, è possibile affermare che quella relazione è stata un vero e proprio rapporto di scambio tra corrotti e corruttori, tra esecutori e mandanti di stragi.

Dall’ottobre del 2017, Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi sono indagati dalla Procura di Firenze come presunti mandanti (ma non i soli) delle stragi di mafia. Il primo, già pluricondannato per concorso esterno in associazione mafiosa e per violenza e minaccia a corpo politico dello Stato, ha appena ottenuto gli arresti domiciliari. Il secondo è grande attore nell’attualità politica, continua a proporre il suo partito ad ogni tornata elettorale ed è stato regolarmente ricevuto da ogni presidente della Repubblica per le normali consultazioni post-elettorali.