“La Trattativa accelerò la morte di Paolo Borsellino”. Le motivazioni della sentenza

di Francesco Bertelli

Adesso i negazionisti e coloro che hanno snobbato l’operato dei magistrati durante questi cinque anni di processo sulla trattativa Stato-mafia devono mettersi l’anima in pace. Il processo non è stata una boiata pazzesca, come molti hanno voluto, e vogliono ancora, farci credere. E non è neppure più possibile sostenere che quella trattativa servì a salvare delle vite, in quanto in una sentenza di primo grado, nero su bianco, si scrive che quel patto scellerato inevitabilmente accelerò la morte di Paolo Borsellino. E, bisogna ricordarlo sempre, nell’attentato di via D’Amelio rimasero uccisi anche i suoi agenti di scorta. Ma non solo, perché nella seconda fase della stagione delle stragi, quella del 1993, sul continente altre persone innocenti morirono mentre la trattativa era ancora nel suo punto culminante in attesa del patto finale con i nuovi referenti.

Onesti servitori dello Stato e onesti cittadini sono morti a causa di questa trattativa. E sì, ha salvato delle vite, ma le vite di quegli stessi politici entrati nella lista nera di Cosa Nostra, in cambio del sangue di innocenti ed è su quel sangue che si è costruita la Seconda Repubblica.

19 luglio 1992 – 19luglio 2018. Ventisei anni dopo la strage di Via D’Amelio, dopo novanta giorni dall’uscita della sentenza, escono anche le motivazioni sul processo del secolo, quello sulla Trattativa fra Stato e Mafia. Nelle oltre cinquemila pagine i giudici ricostruiscono la storia del nostro Paese nel passaggio fra la Prima e la Seconda Repubblica. Si fa luce, si mettono i puntini sulle i, dopo le condanne del processo di primo grado a pezzi dello Stato e boss di Cosa Nostra.

L’elemento primario fissato per iscritto i giudici è ormai un dato di fatto: la morte di Paolo Borsellino è stata accelerata dalla trattativa di cui il giudice era giunto a conoscenza. Viene smontata la tesi delle difese degli imputati secondo cui Borsellino fu ucciso per l’indagine su mafia e Appalti. No Borsellino è morto a causa della trattativa.

Non vi è alcun elemento di prova che possa collegare il rapporto ‘Mafia e appalti’ all’improvvisa accelerazione che ebbe l’esecuzione di Borsellino”, scrivono i giudici. E poi: “Ove non si volesse prevenire alla conclusione dell’accusa che Riina abbia deciso di uccidere Borsellino temendo la sua opposizione alla ‘trattativa’, conclusione che peraltro trova una qualche convergenza nel fatto che secondo quanto riferito dalla moglie, Agnese Piraino Leto, Borsellino, poco prima di morire, le aveva fatto cenno a contatti tra esponenti infedeli delle istituzioni mafiosi, in ogni caso non c’è dubbio che quell’invito al dialogo pervenuto dai carabinieri attraverso Vito Ciancimino costituisca un sicuro elemento di novità che può certamente avere determinato l’effetto dell’accelerazione dell’omicidio di Borsellino, con la finalità di approfittare di quel segnale di debolezza proveniente dalle istituzioni dello Stato e di lucrare, quindi, nel tempo dopo quell’ulteriore manifestazione di incontenibile violenza concretizzatasi nella strage di via d’Amelio, maggiori vantaggi rispetto a quelli che sul momento avrebbero potuto determinarsi in senso negativo”.

Uccidendo Borsellino si tolse di mezzo il vero ostacolo a quella trattativa che era ormai entrata nel vivo, in quanto gli uomini di Cosa Nostra erano alla ricerca di nuovi referenti politici per creare nuove alleanze. Ed ecco allora entrare in gioco Marcello Dell’Utri, l’ambasciatore di Cosa Nostra nello Stato, l’anello di congiunzione fra mafia e politica e Silvio Berlusconi. Si legge nelle motivazioni: “Con l’apertura alle esigenze dell’associazione mafiosa Cosa nostra, manifestata da Dell’Utri nella sua funziona di intermediario dell’imprenditore Silvio Berlusconi nel frattempo sceso in campo in vista delle politiche del 1994, si rafforza il proposito criminoso dei vertici mafiosi di proseguire con la strategia ricattatoria iniziata da Riina nel 1992”.

Il fatto che Dell’Utri fosse intermediario tra le cosche e l’imprenditore appena scesa in politica pose “le premesse della rinnovazione della minaccia al governo quando, dopo il maggio del 1994, questo sarebbe stato appunto presieduto dallo stesso Berlusconi”.

I giudici definitivamente fanno ulteriore chiarezza. Qui non si è processato per il reato di trattativa; il fatto che uomini dello Stato trattino con la mafia è si, dal punto di vista morale, un gesto deprecabile, ma dal punto di vista giuridico non è reato. Il reato imputato per cui sono stati condannati gli ex carabinieri del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, l’ex senatore di Forza Italia e i mafiosi Leoluca Bagarella e Antonino Cinà , è violenza o minaccia al corpo politico dello stato. Hanno intimidito il corretto svolgimento democratico del governo, per la precisione di ben 3 governi dell’epoca dal 1992 al 1994 : quelli di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi alla fine della Prima Repubblica, quello di Silvio Berlusconi, all’alba della Seconda. La prima fase venne portata avanti dai carabinieri, la seconda da Marcello Dell’Utri, con Silvio Berlusconi soggetto passivo ma consapevole, tant’è che i giudici vanno oltre. Infatti la condotta per commettere questo tipo di reato, ovvero la minaccia o violenza a corpo politico dello Stato, non occorre necessariamente che la minaccia si concretizzi ma “ma è sufficiente che sia stata percepita dal soggetto passivo”. Dettaglio non da poco.

L’auspicio, adesso, è che dopo le motivazioni del Borsellino quater e dopo quelle sulla Trattativa parta finalmente una nuova fase di indagine che vada a far chiarezza sui tanti lati oscuri presenti in questi due processi  le cui sentenze devono essere lette come un puzzle consequenziale. Dalla scomparsa dell’agenda rossa fino ai veri mandanti della strage di Via D’Amelio e delle bombe del 1993.