E’ tornato in libertà da alcuni mesi il primo accusato in Italia di business dell’immigrazione e abusi nei centri

di Alessio Di Florio

Business dell’immigrazione, traffici sulla pelle dei disperati e dei più fragili e indifesi. Le cronache nere d’Italia da decenni, legate alla criminalità ma anche a malapolitica e imprenditori di ogni risma, ne sono colme. L’immigrazione non è da meno. E su questo una parola netta e decisa va piantata, squarciando ogni velo d’ipocrisia e retorica. Sfatiamo un tabù, una volta per tutte. In Italia non esiste una “buona politica” sulla questione immigrazione e, esclusi alcuni casi autorganizzati di associazioni e movimenti anche isolati(penso a realtà come il Baobab di Roma o alcune realtà religiose), l’accoglienza non esiste. Parlare di dicotomia accoglienza/respingimento, di alternativa tra l’uno e l’altro è parlare di un qualcosa che non esiste. La cronaca degli ultimi vent’anni e oltre, ancor di più dalla Turco-Napolitano in poi, racconta ben altro. Abusi, violenze, affarismo senza scrupoli e tante altre cose tutt’altro che edificanti. Per chiunque pensi che la politica debba essere guidata dall’umanità, dalla solidarietà e da altri alti nobili ideali, Kader I Radesh, Serraino Vulpitta, San Foca, Portopalo, Mineo e tantissimi altri fanno rima con vergogna e pagine nere, anzi nerissime, di cronaca e abusi. Sulla pelle di disperati e umanità varia. Antonio Mazzeo in Sicilia sono anni che non riesce a smettere di scriverne, ormai avrà già prodotto tanto di quel materiale di denuncia che la treccani al confronto è un saggio breve … Negli ultimi anni simbolo di tutto questo è stato sicuramente il CARA di Mineo, nato ai tempi dell’emergenza Nord Africa (2011, governo Berlusconi-Maroni) con l’apertura dei Cas, i grandi centri per emergenza nati in alberghi e ogni possibile struttura. Su Cas in varie parti d’Italia su cui negli anni le inchieste giornalistiche e giudiziarie. Cas che non saranno messi in discussione, di fatto, neanche col nuovo decreto sicurezza che punta su una enorme stretta sugli Sprar. Una commissione parlamentare d’inchiesta, dopo i sopralluoghi del 26 maggio 2015 e del 7 luglio 2016, ha documentato a Mineo contesti “spesso invivibili e lesivi della dignità umana”, gravi problemi di sicurezza e “vere e proprie infiltrazioni mafiose”. Condizioni igieniche precarie, appartamenti fatiscenti, evidente carenza dell’attività di manutenzione della struttura, servizio medico deficitario, mancanza di spazi di socialità, insufficiente mediazione linguistico-culturale. La relazione finale descrive una situazione dantesca. Un quadro di “opacità di gestione ed episodi di illegalità” con scelte clientelari dei fornitori, personale assunto per chiamata diretta senza verificare i requisiti professionali, irregolarità nelle comunicazioni al Prefetto e gestione non trasparente dei pocket money. La conclusione della Commissione fu lapidaria: il Cara deve “essere chiuso nel più breve tempo possibile”. Ma la Commissione andò oltre, criticando l’intero sistema di “accoglienza”, il cui approccio è “evidentemente fallimentare”. Ma questo sistema, basato soprattutto su provvedimenti emergenziali e sui Cas, non viene messo in discussione neanche dal cosiddetto decreto sicurezza, che punta su una enorme stretta al contrario sugli Sprar. Il 17 dicembre 2016 il procuratore Verzera, intervistato da Radio24, sottolineò che nel Cara sono presenti un “numero praticamente pari agli abitanti di Mineo”. Praticamente “ogni giorno succede qualcosa: ci sono arrestati, risse, maltrattamenti, c’è gente che tenta il suicidio, quindi ci sono continui interventi delle forze dell’ordine”. Alcune associazioni del catanese denunciarono già negli anni scorsi che nel Cara “il controllo sociale sostanzialmente è stato subappaltato a boss etnici che spadroneggiano fra connazionali e non solo”, “giornalmente ci sono donne migranti che vengono prelevate dinanzi ai cancelli del Cara per incrementare la piaga della Tratta e il racket della prostituzione” e “molti migranti” lavorano “in nero per 10/15 euro al giorno nelle campagne” mentre “stanno dilagando anche la prostituzione e lo spaccio di droga”.

Molti anni prima del CARA di Mineo, quando non c’erano ancora i CAS ed affini e tutto il sistema si reggeva sui Cpt creati dalla legge Turco-Napolitano, una vicenda simbolo fu quella del “Regina Pacis” di Lecce. Tra il 2002 e il 2007 si accesero i riflettori di varie inchieste giornalistiche (tra cui il documentario di Stefano Mencherini “Mare Nostrum”, oggi disponibile integralmente online http://www.arcoiris.tv/scheda/it/2957/ https://www.youtube.com/watch?v=AGgOww84fps ) e giudiziarie. Il 22 luglio 2005 Lodeserto fu condannato a un anno e quattro mesi per violenza privata e lesioni aggravate nei confronti dei 17 immigrati di origine maghrebina, nel 2007 è stato a 5 anni e 4 mesi e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per sequestro di persona, estorsione e calunnia ai danni degli ospiti del CPT. Nel luglio 2009 arrivò una condanna dalla Corte dei Conti (confermata in secondo grado dalla stessa Corte nel 2012 e divenuta definitiva dopo sentenza della Cassazione del 28 novembre 2013 ) a rimborsare allo Stato la somma di € 133.651 per “maggiori prestazioni a favore degli immigrati rispetto a quelle effettivamente rese”. Nel 2013 la Cassazione lo ha invece assolto dal reato di peculato, secondo l’accusa aveva sottratto “mediante fittizie operazioni contabili” oltre 2 miliardi di lire. Ma la motivazione merita attenzione: perché “il denaro era entrato nel patrimonio della Curia arcivescovile di Lecce che, a mezzo dei suoi esponenti a ciò incaricati, tra cui certamente Lodeserto, poteva disporne senza render più conto all’amministrazione pubblica”.

Una delle condanne portò nel marzo 2016 all’affidamento all’associazione Ave Maria nostra speranza di Quistello, nel Mantovano. Il responsabile del Regina Pacis doveva scontare un residuo di pena di 2 anni e 8 mesi relativa alla condanna di 5 anni e 4 mesi (ridotta dall’indulto) di reclusione per calunnia, sequestro di persona e violenza privata. Usufruendo di ulteriori benefici di legge, l’affidamento è terminato a fine maggio. Don Cesare Lodeserto è così tornato in Moldavia, dove continuano le attività della Fondazione Regina Pacis. Sul sito della Fondazione vengono riportate molte iniziative nel paese ex sovietico, la homepage è interamente in moldavo e i contatti pubblicati sono relativi alla succursale nel paese della Fondazione.

Dopo la chiusura del cpt, l’allora vescovo di Lecce Cosmo Ruppi (di cui Lodeserto era segretario particolare) lo inviò fidei donum in Moldavia. Fu l’avvio delle attività nella capitale Chisinau della fondazione Regina Pacis. Anche, scrisse Stefano Mencherini, “con altri fondi pubblici come quelli che gli portò l’allora presidente della Provincia salentina, l’avvocato ed ex senatore Ds Giovanni Pellegrino. Persino alcune visite blasonate non si fece mancare, come quella  dell’allora ministro degli Esteri Massimo D’Alema in ossequiosa trasferta”. A gennaio 2011 la presenza in Moldavia della Fondazione “Regina Pacis” finì al centro di due interrogazioni parlamentari, presentate al Senato da Vincenzo Vita e alla Camera da Giuseppe Giulietti. Dopo aver citato le vicende giudiziarie di Lodeserto, Giulietti sottolineò che la fondazione nel 2009 aveva sottoscritto una convenzione con il patronato Acli di Chisinau, “soggetto che agisce sotto la vigilanza del Ministero del lavoro e delle politiche sociali”. Il deputato chiese se c’erano “forme di collaborazione tra la fondazione Regina Pacis e i Ministeri o enti sottoposti alla vigilanza dei Ministri interrogati e se non si ritenga di interrompere ogni collaborazione con la citata fondazione fintantoché don Cesare Lodeserto ricopra ruoli di responsabilità nella medesima, viste le gravi e numerose condanne nelle quali è incorso”. Il sottosegretario Mantica sottolineò che la Fondazione era sostenuta dalla Chiesa italiana “in ragione della sua attività di carattere sociale e missionario”, collaborava con “il locale ufficio del programma delle Nazioni unite per lo sviluppo nei settori dell’accoglienza, dell’assistenza e del sostegno ai poveri del paese” e il presidente moldavo aveva concesso a Lodeserto la cittadinanza per “per meriti straordinari acquisiti nel settore sociale”.

Negli anni del cpt, Lodeserto aveva una schiera di sostenitori di peso che andavano dall’allora potentissimo direttore della Banca d’Italia Fazio a politici di ogni schieramento. Mentre invece, associazioni, giornalisti, movimenti ripetutamente attaccavano la gestione. Il 30 novembre 2002, denunciò il compianto Dino Frisullo, una delegazione uscì sconvolta “dal livello di abuso ed arbitrio” nel Regina Pacis. “Gli operatori civili nei Cpt – scrisse nell’articolo “Se questa è umanità”  – non dovrebbero avere in dotazione bastoni. Invece ce l’hanno, e li usano.
Il 22 novembre qualche decina di “ospiti” tentarono la fuga dal Regina Pacis […] Ad una settimana di distanza, la camerata dei marocchini sembrava un’astanteria del Pronto Soccorso. Gambe e braccia fasciate e ingessate, lividi, punti di sutura… Secondo la direzione quelle ferite erano il risultato del salto dalla balconata. […]
I loro racconti erano univoci. Li avevano condotti a gruppetti nella stanza del direttore, anzi in uno stanzino adiacente, e li avevano picchiati con bastoni di legno ed a calci. [..] Poi, dopo aver cominciato a rompergli le ossa, avevano passato la mano ai carabinieri con gli anfibi e i manganelli. Il direttore Lodeserto, il benefattore dell’umanità, il candidato al Nobel per la pace, c’era? Sì, c’era, confermavano tutti. Uno di loro era stato denudato, ammanettato e lasciato per una notte legato all’addiaccio. Un altro era stato massacrato di botte non nello stanzino ma in camerata, davanti a tutti, come umiliazione e ammonimento. … Nello stanzino si picchia spesso? Sì, spesso, rispondevano”.

Ho visto persone che venivano schiaffeggiate dal direttore don Cesare. Ad altre prendevano la testa e gliela schiacciavano contro il muro in presenza di tutti. Io ero terrorizzato, tutti eravamo terrorizzati” testimoniò un “ospite” del Regina Pacis ad Avvenimenti di Gennaio 2003. “E’ successo a un mio amico colpevole di aver detto grazie a una ragazza che lavorava nella sala mensa. Il direttore lo ha portato dentro un ufficio e dopo cinque minuti lo ha fatto uscire in lacrime con la faccia rossa di botte” leggiamo ancora nello stesso articolo di Avvenimenti. “Il direttore mi ha preso per i capelli e mi ha sbattuto più volte la testa contro il muro. Mentre mi picchiava continuava ad insultarmi. Ho avuto paura che mi ammazzasse” il racconto di uno dei migranti che tentò la fuga il 22 novembre 2002. L’ultima lettera contro la gestione del centro Dino Frisullo la scrisse in ospedale il 25 aprile 2003, poche settimane prima della morte il 5 giugno di quell’anno. Dino denunciò la totale solitudine nella quale parte dell’allora opposizione lasciò associazioni e movimenti. Nell’agosto 2001 “dodici kurdi erano stati riconsegnati dal Regina Pacis, via Malpensa, ai loro torturatori turchi” mentre “nella primavera successiva riuscimmo a fermare il rimpatrio di altri cento kurdi , ma non di sessanta srilankesi respinti nell’inferno della guerra civile”. E sottolineò la presenza di Lodeserto ad un convegno parigino convocato da “mons. Lustiger, sgomberatore di sans-papier ed esponente della destra ecclesiastica, per teorizzare la gestione religiosa dei centri di detenzione in Europa e di quelli di contenimento oltre le frontiere comunitarie”. Una teoria che, 15 anni dopo, è tornata prepotentemente in auge (e si sta realizzando). Senza dimenticare che i primi accordi con Gheddafi, per la gestione di campi nei quali sono stati segregati e hanno subito abusi di ogni tipo i migranti, sono datati 2006. Firmatario il governo Prodi. “Comunque si concluda la duplice indagine giudiziaria per malversazioni e lesioni sul centro Regina Pacis – scrisse Dino in quella lettera – sarà ben difficile che qualcuno riproponga quest’esperienza a modello per fantasiosi premi Nobel per l’accoglienza, dopo che si sono levati i veli che ne occultavano il cinico funzionamento da istituzione totale”. Senza l’impegno del variegato mondo antirazzista questi veli non sarebbero stati squarciati – la sua testimonianza – “quattordici maghrebini pestati non avrebbero potuto chiedere giustizia di là dal mare” e non si sarebbe potuto continuare l’impegno per la giustizia per i morti della Kader i Radesh, la nave affondata durante il blocco navale stabilito contro gli albanesi dal governo Prodi il venerdì santo del 1997 che causò la morte di almeno 105 persone (81 furono i corpi ritrovati mentre i dispersi furono stimati tra i 24 e i 27). E’ in loro nome – e di tanti altri, concluse Dino – che fu presidiato il Duomo di Lecce, “nel nome di Cristo condannato a morte per sedizione, come scrisse il Social Forum barese. Di quel Cristo in cui, credenti o no, ci potremmo riconoscere tutti noi e soprattutto tutti gli esclusi, i reclusi, gli offesi. Non coloro che li offendono e li recludono”.