Le denunce e l’impegno ambientalista di Giuseppe Di Bello contro l’inquinamento petrolifero

di Alessio Di Florio

“È una regione che è da un lato la più ricca e dall’altro anche la più depredata dalle caste di mafia e corruzione”, così Antonio Ingroia riassunse la realtà della Basilicata in un’intervista all’edizione lucana de “Il Roma” in occasione della campagna per le elezioni politiche del 2018 con la “Lista del Popolo per la Costituzione”. Una lista che in Basilicata candidò Giuseppe Di Bello, tenente della polizia provincia di Potenza, ambientalista storico e responsabile di “Liberiamo la Basilicata”. Il nostro direttore e presidente di Azione Civile definì Giuseppe Di Bello “il modello di un italiano che dentro le istituzioni si batte contro le mafie, le cricche, le caste, in quell’intreccio tra mafia e corruzione che purtroppo hanno devastato prima il meridione d’Italia, ma che ormai ha invaso tutto il Paese”, una battaglia portata avanti non solo dentro le istituzioni “sul piano investigativo e giudiziario” ma anche sul terreno politico. Un impegno per il quale sono tanti anni che Di Bello paga un prezzo professionale altissimo, allontanato per dieci anni e ostracizzato dalle alte sfere dell’amministrazione pubblica locale. «Tutto è nato nel gennaio 2010 quando sul territorio documentai modifiche dei territori e inquinamento di acque e terreni, cose che scoprii con frequenti sopralluoghi e frequentando il territorio, la modifica dell’invaso del lago Pertusillo era tra l’altro evidente ad occhio nudo, così come sul territorio stesso avevo contatti con chi lo frequenta e abita ogni giorno – ci ha raccontato lo stesso Di Bello in un’intervista pochi giorni fa – Non mi affidai all’Arpab, di cui non mi fidavo, ma ad un laboratorio privato ed evidenziai quel che non andava: i ciottoli alla riva dei fiumi avevano cambiato colore, cosa che accade solo con rifiuti petroliferi. Fui denunciato dal vice presidente della regione Basilicata, anche assessore all’ambiente, avv. Vincenzo Santochirico che si recò personalmente dal procuratore Colangelo per denunciarmi. Avevo condiviso le notizie con Bolognetti, segretario locale dei Radicali. Attaccato dall’allora direttore Arpab Sigillito, da Santochirico e da un professore dell’Università di Basilicata fece uscire un articolo su “La Nuova Basilicata” in cui disse che le notizie erano partite dalla polizia provinciale, l’articolo riproduceva una parte sostanziale della mia comunicazione all’autorità giudiziaria. Da lì partirono le denunce e, nel momento in cui rischiò il sequestro del computer, Bolognetti consegnò spontaneamente email e file da me ricevuti. Fui sospeso immediatamente dal servizio, anche se non avevo avuto rinvii a giudizio o condanne. Potevo rientrare in servizio il 25 luglio ma in base al decreto Brunetta mi fu imposto di cambiare ufficio altrimenti la sospensione sarebbe rimasta fino alla fine del processo» e così Giuseppe Di Bello si ritrovò «in un’altra mansione per dieci anni». Le denunce ricevute portarono in primo grado alla condanna «a 2 mesi e 20 giorni, i contratti di lavoro stabiliscono che per condanne inferiori ad un anno non è possibile licenziare e a me per molto meno hanno distrutto dieci anni di lavoro – sottolinea Di Bello che aggiunge – accusa in concorso con Bolognesi che però fu assolto, l’articolo 32 della Costituzione sancisce l’importanza della salute e convenzioni internazionali – a partire da Aarhus – sanciscono l’importanza della tutela dell’ambiente e dell’informazione ai cittadini. La Cassazione ha annullato ogni mia condanna nel 2015 e nel 2017. Già nel 2015 fu sancito che non c’è stato nessun interesse mio personale e nessun danno alla Pubblica Amministrazione e nel 2017 che c’è stata una mia condotta apprezzabile per far conoscere una importante questione di rilevanza sociale». «Se nel 2010 si fosse dato seguito alle mie comunicazioni – chiosa con amarezza – si sarebbe arrivati prima evitando così molti gravi danni ambientali. Il presidente provinciale che mi confinò nel museo provinciale a fare da vigilantes (ruolo in cui praticamente non avevo compiti operativi e prima di me mai c’era stato un ufficiale) era Pietro La Corazza (PD), dopo arrivò Nicola Valluzzi che è l’attuale capo segreteria di Salvatore Margiotta al Ministero delle Infrastrutture». Salvatore Margiotta fu arrestato su richiesta del pm Woodcock nel 2008 per presunte tangenti legate a Tempa Rossa, assolto in primo grado, fu condannato in appello nel 2014 e nuovamente assolto dalla Cassazione nel 2016.
«Nel 2015 – prosegue il resoconto della sua travagliata vicenda – dando seguito alla riforma Del Rio sulle province dovevano ridurre personale e competenze, mentre ero ancora confinato nel museo ero anche nominato consulente della commissione ecomafie, il presidente Rocco Valluzzi mi nominò in ruoli non fondamentali su caccia e pesca (su tutti i comuni della provincia di Potenza). Mi ritrovai nell’elenco del personale in mobilità in quanto figura non fondamentale, la competenza era diventata regionale con la riforma ma la regione la ridelegò alla provincia affidandogli milioni di euro. Sulla carta ero responsabile della sorveglianza caccia e pesca ma mi tenevano nel museo e il presidente provincia nominò un facente funzione al mio posto. Alla Regione furono inviati dei rendiconti secondo cui ero attivo sul territorio per la vigilanza su caccia e pesca. Secondo la legge legge Madia sarei dovuto tornare nel ruolo fondamentale che mi spettava in quanto stabilisce che si devono valorizzare le competenze, avevo anche il maggior punteggio in graduatoria per essere comandante provinciale. Dopo l’arresto di Pittella e le nuove elezioni scrissi al presidente subentrato Vito Bardi per fargli conoscere la mia situazione». L’ultimo capitolo (per ora!) della travagliata vicenda professionale di Giuseppe Di Bello è degli ultimi mesi quando, prosegue nell’intervista, «con l’arrivo dell’emergenza coronavirus provarono a convincermi a chiedere un periodo di ferie ma io mi sono rifiutato, mi sono così trovato ad essere re-integrato nella polizia provinciale dopo dieci anni. Ma resto chiuso in ufficio e non ho la possibilità di vigilare sul territorio, i due agenti affidati al mio ufficio a loro volta sono 5 anni che non hanno la possibile di uscire dall’ufficio».
La Basilicata è la regione italiana con maggiori insediamenti petroliferi, varie volte finiti all’attenzione della cronaca giudiziaria anche nazionale e oggetto di fortissime critiche ambientaliste per le gravi conseguenze sul territorio. Giuseppe Di Bello è, come già accennato, anche il responsabile del movimento “Liberiamo la Basilicata” con cui ha promosso insieme a “Comitato Aria Pulita Basilicata Onlus” un’azione di responsabilità nei confronti dell’ENI portata all’attenzione dell’ultima assemblea degli azionisti. Dopo aver ricostruito la storia dell’ENI e le vicende giudiziarie in corso il corposo documento propone l’azione di responsabilità nei confronti dei vertici societari evidenziando:
«che il notevole materiale inquinato emunto nella Val D’Agri è stato trasferito e continua ad essere trasferito con autocisterne a diversi impianti di trattamento operanti in Italia, producendo costi notevoli di trasporto e smaltimento per Eni S.p.A. e che la mega dimensione del disastro ambientale ha reso necessario la redazione di un Piano di Bonifica dei siti lucani inquinati, che il Dipartimento Ambiente della Regione Basilicata ha inserito nel Piano Regionale di Gestione dei Rifiuti (PRGR);
2) che a partire dal 2017 per ridurre gli oneri della bonifica (nell’ambito della messa in sicurezza dell’emergenza – MISE ancora in corso presso il COVA) sono stati progettati e installati dalla società Syndial (Gruppo Eni) tre impianti mobili per il trattamento delle acque sotterranee inquinate emunte e per il conferimento dei pertinenti reflui al depuratore del Consorzio per lo Sviluppo Industriale di Potenza situato nel Comune di Viggiano, e tutto ciò sta determinando notevoli costi ad Eni S.p.A;
3) che l’avere inserito i tre citati impianti Syndial di “trattamento acque” in un area ricca di sorgenti – nella quale il COVA dista 400 metri dal fiume Agri e circa 2 Km dall’invaso del Pertusillo – non garantisce l’ecosistema della Val D’Agri e in particolare il sistema delle acque pubbliche;
4) che nel caso di eventuali incidenti alle linee Syndial di trattamento gli inquinanti arriverebbero nella falda acquifera, nel fiume Agri e nell’invaso del Pertusillo con la grave conseguenza di rendere quelle acque inutilizzabili a qualsiasi scopo, incluso quello potabile;
5) che gli ingenti danni causati al territorio e alle popolazioni locali richiamano in causa le responsabilità dell’Eni S.p.A. sotto diversi profili, inclusi quelli risarcitori, determinati anche dagli alti oneri sostenuti e da sostenersi per la bonifica del suolo e per l’emungimento, stoccaggio, trasporto e smaltimento delle acque inquinate;
6) che tali danni sono stati originati per non aver applicato le tecnologie esistenti e gli strumenti di analisi già note, come tra l’altro asserito nel 2012 e 2013 da Gianluca Griffa (dirigente Eni S.p.A. della sicurezza COVA, deceduto nell’agosto 2013).
7) che il comportamento dei diversi responsabili dell’Eni S.p.A. ha arrecato gravi danni economici non solo alla stessa Società, alla sua proprietà e azionariato, bensì anche all’economia sociale dei territori e allo Stato per il mancato rispetto delle leggi;
8) che le bozza del bilancio societario al 31 dicembre 2019 offre notizie ridotte e limitate rispetto ai nefasti accadimenti avvenuti al COVA e nei territori di pertinenza della Regione Basilicata, che comprovano ulteriormente le responsabilità dei vertici e dell’alta dirigenza dell’Eni S.p.A. (anche rispetto ai diversi comunicati stampa emessi da Eni S.p.A.) sull’intera vicenda e non danno complete informazioni sulle effettive responsabilità dei disastri ambientali causati dalle attività estrattive nella regione Basilicata (cfr. pagine 130 e 226 della bozza del bilancio al 31 dicembre 2019 );
9) che i gravi fatti di gestione coinvolgono i vertici e gli alti dirigenti della capogruppo Eni S.p.A. sia per diretta responsabilità gestionale, sia per avere determinato nel lungo periodo di pertinenza la nomina dei responsabili del Distretto Meridionale Val D’Agri, nonché degli altri dirigenti coinvolti a vario titolo nel disastro ambientale accertato nel 2017 e negli inquinamenti estrazioni petrolifere procurati in Val D’Agri e nella regione Basilicata».

In occasione dell’assemblea degli azionisti i vertici della società petrolifera, in risposta al documento presentato da “Liberiamo la Basilicata” e “Comitato Aria Pulita Basilicata Onlus” ha elencato una serie di “Best practise” e monitoraggi, ricostruito la filiera con cui il greggio “dopo una primaria separazione” viene spedito nella raffineria di Taranto e sostenuto, in relazione al processo “Petrolgate” che «nel corso delle numerose udienze sino ad oggi svolte si è sottoposto all’attenzione del Tribunale ampia evidenza tecnica idonea a dimostrare come il COVA, nella gestione delle proprie acque reflue derivanti dall’attività di estrazione, abbia sempre operato in conformità a quanto previsto dalla normativa di settore ed a quanto autorizzato nella propria Autorizzazione Integrata Ambientale, garantendo, inoltre, la perdurante applicazione delle Best Practice nel tempo disponibili in materia», che quel che «viene definito “rifiuto pericoloso”sono «le acque estratte dal giacimento che, una volta sottoposte al ciclo produttivo del “Centro Olio Val D’Agri”, vengono per una parte reiniettate in giacimento attraverso il pozzo Costa Molina 2 e, per altra parte, smaltite tramite autobotti», «con riferimento allo sversamento dal serbatoio D del Centro Olio Val D’Agri, rinvenuto nel febbraio 2017, Eni ribadisce essersi trattato di un incidente non prevedibile e di avere immediatamente predisposto un piano di interventi per la messa in sicurezza delle aree potenzialmente interessate dalla presenza di idrocarburi», che «la contaminazione in discussione ha interessato esclusivamente i terreni e le acque della falda superficiale all’interno dell’area industriale del COVA» e che «sulla scorta delle analisi eseguite proprio dall’Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente della Basilicata (ARPAB), infatti, si esclude che la contaminazione possa aver interessato il Fiume Agri e il Lago Pertusillo, ove non è mai stata rilevata la presenza di idrocarburi provenienti dalle attività del COVA. Le analisi chimiche sinora condotte su dette acque hanno confermato il rispetto degli standard normativi di qualità per le sostanze di rilievo e, in tutti i campioni di acqua analizzati, la concentrazione di idrocarburi è risultata essere sempre inferiore al limite di determinazione analitico del metodo» e che anche «l’evento di spill rinvenuto nel febbraio del 2017 ha costituto, invece, un evento incidentale che, sulla base delle indagini geognostiche svolte e delle risultanze delle attività di MISE immediatamente realizzate, ha comportato una contaminazione di surnatante circoscritta e contenuta» aggiungendo il procedimento penale per quest’evento »«è attualmente pendente avanti la Procura della Repubblica di Potenza e che le indagini preliminari, nell’ambito delle quali la Corte di Cassazione ha annullato tutti i provvedimenti di custodia cautelare personale inizialmente disposti nei confronti dei dirigenti Eni, si sono concluse, rimanendo in attesa della fissazione dell’udienza preliminare. Per una singola posizione personale Eni è pendente nelle sue fasi preliminari il giudizio immediato avanti il Tribunale di Potenza».

Nell’intervista di qualche giorno fa con Giuseppe Di Bello abbiamo approfondito le ragioni dell’azione di responsabilità nei confronti dei vertici ENI e l’attuale situazione.

Come è nata l’azione responsabilità verso i vertici ENI?
«Liberiamo Basilicata ha acquistato azioni ENI così da poter partecipare all’assemblea. Attualmente sono in corso due processi, in entrambi siamo parti civili, contro ENI, Shell, Total ed altri. Il primo è “Petrolgate”, riferito ad un’attività portata avanti per anni dalle compagnie petrolifere modificando i codici CER dei rifiuti da attività estrattive da pericolosi a non pericolosi ed avere notevoli risparmi economici, modifica illecita secondo l’autorità giudiziaria. In un periodo preso a riferimento da settembre 2013 a settembre 2014 è stato contestato l’illecito smaltimento per un milione e 485mila tonnellate, parte di questi rifiuti sono stati smaltiti illegalmente nel pozzo “Costa Molino” in Val d’Agri, un’altra parte presso Tecnoparco partecipata al 40% dalla Regione Basilicata. Praticamente l’accusa è che la Regione ha incassato per avvelenare il territorio della regione stessa. Tecnoparco è stata interessata da più inchieste, una di queste è la stessa petrolgate insieme a compagnie petrolifere, dirigenti Regione Basilicata e dirigenti Arpab (Agenzia Regionale Protezione Ambiente Basilicata) e altri. Arpab è coinvolta con vari dirigenti, non appare quindi una questione un singolo ma di sistema. Tecnoparco lavora nello smaltimento fanghi industriali e rifiuti speciali anche da estero e nord, quando andai a fare analisi di campionamento in Val Basento – ci sono contadini che avevano produzioni d’eccellenza ridotti sulla povertà per terreni avvelenati da acidi, ammine (derivati da produzioni petrolifere) e altro. Quando andai a fare analisi e campionamenti la stampa locale riportò la notizia, e che avevo trovato valori superiori anche di mille volte di cancerogeni, e da Tecnoparco ho ricevuto una comunicazione per milioni di euro con richiesta di risarcimento danni. Quando ci fu il sequestro delle vasche sparirono le carte dal mio fascicolo in provincia, oltre alla richiesta di risarcimento danni era stato proposto alla polizia provinciale di licenziarmi».
I procedimenti penali a che punto sono?
«Due sono i filoni, uno è “Petrolgate” per traffico e smaltimento rifiuti, l’altro è “Totalgate” per corruzione, turbativa d’asta, appalti con lavori indirizzati dalla politica fino alle assunzioni (è quello in cui fu coinvolto anche il marito dell’ex ministro Guidi). Pochi giorni fa il tribunale potenza ha sancito la divisione dei due filoni, va chiarito che finora non ci sono mai state archiviazioni e assoluzioni clamorose – ma solo alcune posizioni stralciate – al contrario di quanto certa stampa e politica stanno cercando di far credere, i processi sono tutt’ora in piedi».
ENI nel presentare il bilancio ha scritto di essere convinta di assoluzione piena …
«La mia riflessione “nuda e cruda”, in maniera diretta e senza fronzoli, è che lì dove la compromissione è così forte, tanto da non vedere l’avvelenamento di acque e terreni, appare normale che si possa sostenere una tesi del genere. Anni fa in una relazione al bilancio anche Tecnoparco espresse la stessa convinzione. Io non sono un giudice e non mi ci posso sostituire, non appare comprensibile come questi vertici si prendano queste prerogative mostra il livello a cui siamo arrivati».
Vertici ENI che sono stati riconfermati nei mesi scorsi, compreso il criticato e contestato amministratore Descalzi …
«Una scelta che definisco vergognosa: la moglie di Descalzi è accusata di gestire una società di trasporti petroliferi, c’è il processo in corso a Milano sulle tangenti in Nigeria, ci sono i processi in Basilicata e purtroppo anche i 5 stelle si sono allineati al pd e li hanno riconfermati. Fino al giorno prima il Movimento 5 Stelle si era detto contrario alla rinomina di Descalzi».
Su petrolgate arriviamo a Basentini …
«Ci siamo trovati di fronte ad un fatto clamoroso: il maggior processo mai avvenuto a Potenza ha perso la pubblica accusa, è come se un chirurgo durante un’operazione lascia per andare a fare questioni personali, non è stata una dinamica normale. È un precedente che non permette una valutazione molto positiva dell’operato di Basentini, è stato anche un segnale negativo davanti ai cittadini che così perdono fiducia nella giustizia. Quanto accaduto in questi mesi secondo me è meno pesante di quanto accaduto qui con l’addio nel 2018 raggiungendo due obiettivi: indebolire il processo e, dopo i fatti di questi ultimi mesi, di tentare una demolizione mediatica dello stesso senza parlare minimamente del traffico e smaltimento di rifiuti. In tutto questo un pubblico ministero che avesse a cuore la sua terra avrebbe rinunciato. Prima di “Petrolgate” non si ricordano grandi inchieste di Basentini».
Torniamo all’azione di responsabilità, bocciata dall’assemblea, come si andrà avanti?
«Abbiamo fatto un’azione che avrebbe dovuto fare il governo in base a sacrosanti principi di giustizia e difesa dei cittadini. Durante la votazione 1 miliardo e 100 mila azioni, il 55%, si è astenuta, in termini d’immagine questo dimostra che a livello d’immagine la nostra azione non è uscita indebolita, il 45% si è espressa contro ma nel nostro cammino abbiamo trovato altre 85 azionisti che ci hanno sostenuto. Ero presente anche l’anno scorso, ero stato delegato dai piccoli azionisti ex banca mediterranea che hanno perso tutto, e continueremo ad esserci. La Banca Mediterranea che, come ho detto prima, era in mano a Somma (il padre invece Tecnoparco).
Nella risposta di ENI c’è un passaggio importante dove scrivono che il pagamento delle royalties sarà condizionato a nuovi pozzi, il nostro supplizio quindi non è finito. Una devastazione che non è solo lucana, i rifiuti finiscono in Sicilia, in Calabria, a Taranto, a Benevento, ad Avellino. Se si continua ad operare così per l’arricchimento di pochi … si dovrebbe e si può invece agire diversamente».